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Note a margine sui quattro anni di Conor O’Shea e la scelta del suo sostituto. Chi dopo Rob Howley?

Articolo pubblicato su Allrugby numero 140

Cos’è che non ha funzionato nel matrimonio tra Conor O’Shea e la Fir, un connubio che doveva cambiare dalle fondamenta il rugby italiano (parole e musica dell’allenatore irlandese)?

Le incomprensioni sono state molte, da entrambe la parti. Ci sono stati errori e sottovalutazioni. Alla fine, la separazione è stata consensuale, non una guerra dei Roses. Non importa chi abbia fatto il primo passo. Il dato più importante è stato la mancanza di risultati: un matrimonio senza figli è come un albero senza frutti. Qualcuno prima o poi lo taglia.

 

L’antefatto

Per Nick Mallett non capivamo “un cazzo”, e vabbè. Jacques Brunel, invece, nel 2014, a due anni dalla scadenza del suo incarico, si era già arreso all’evidenza dei fatti.

Conversando con chi scrive, una sera al Lanfranchi di Parma, a margine di una partita (persa) dalle Zebre, il francese confessò che le sue possibilità di intervenire sulla situazione erano così limitate “che i 23 dell’Italia potresti sceglierli tu – disse -, non cambierebbe niente”.  L’ultimo periodo della sua gestione fu in linea con quello stato d’animo: un disastro.

Poi fu annunciato l’arrivo di Conor O’Shea, più giovane (all’epoca l’irlandese aveva 46 anni), pieno di entusiasmo, la fama di grande organizzatore e un curriculum vincente con gli Harlequins.

O’Shea come primo atto si comprò casa a Sirmione, a metà strada tra Brescia e Verona, distanza quasi equidistante tra Zebre e Treviso.

Mike Catt, suo braccio destro, scelse Colognola ai Colli, sulla sponda veneta del Lago di Garda.

Da lì, insieme a Stephen Aboud, il cui ingaggio fu perfezionato qualche settimana più tardi, la “troika” anglo-irlandese avrebbe dovuto governare il rugby italiano per il successivo quadriennio, o anche di più. Sappiamo come è andata. Perché?

 

L’Italia più forte di sempre

O’Shea fu presentato ufficialmente alla fine di maggio del 2016: aveva preso qualche lezione di italiano e promise che in breve si sarebbe espresso quasi esclusivamente nella lingua Dante. Su quel fronte, va detto, a distanza di tre anni e mezzo i progressi sono stati irrilevanti.

All‘epoca, grazie ai buoni uffici di Andrea Cimbrico, Allrugby, per ovviare ai problemi di stampa di un mensile, ebbe la possibilità di intervistarlo in anteprima, via Skype, noi Italia, lui nella sua casa in Inghilterra.

Fu affabile, gentile e si mostrò assai preparato: aveva studiato con cura il nuovo contesto e conosceva tutti i giocatori, compresi quelli della U20 “Riccioni, Rimpelli, Gabriele Venditti…”, snocciolò nomi e caratteristiche. Della sua competenza tutti erano certi.

Tuttavia a Milano, il giorno della sua presentazione, Stefano Semeraro, uno dei fondatori di questa rivista, gli pose una domanda non banale: “è consapevole – gli disse – che lei oggi rappresenta la nostra ultima spiaggia e che se fallisce per noi non ci sarà un’altra chance?”.

O’Shea rispose di conoscere benissimo le difficoltà dell’impegno assunto e sottolineò di essere stato chiamato proprio per la gravità della salute del paziente-Italia. “Se tutto andasse bene, non sarei qui…” aggiunse, promettendo di intervenire sui dettagli, sullo spirito e sugli umori della squadra. “Dobbiamo rompere il circolo vizioso delle sconfitte, far sì che gente come Zanni, Ghiraldini, Parisse, quelli che sono qui da più tempo, non dicano “eccone un altro…”. Spiegò che l’Irlanda degli anni Novanta, la “sua” Irlanda, aveva sprecato giocatori e potenziale, ma che da quando, dal 2000 in poi, il lavoro a Dublino era diventato professionale e costante, la crescita era stata entusiasmante. Concluse con una promessa che sarebbe diventata uno slogan, un mantra: “vogliamo costruire l’Italia più forte di sempre”.

 

L’autunno 2016

O’Shea prese confidenza con gli Azzurri durante il tour (giugno 2016) nelle Americhe: perse con i Pumas a Santa Fè e battè gli Stati Uniti e il Canada in trasferta.  Poi vennero l’autunno e la famosa vittoria di Firenze sugli Springboks: una partita che, raccontò Parisse, il ct aveva messo nel mirino già dall’estate. Il Sudafrica era la prima (e finora resta l’unica) delle “big four” (le altre sono Nuova Zelanda, Inghilterra e Australia) ad essere sconfitta dall’Italia.  Un segno del destino, una svolta epocale?

Il sogno durò soltanto “l’espace d’un matin”. Sette giorni dopo aver umiliato i ‘Boks al Franchi, gli Azzurri furono sconfitta da Tonga a Padova, colpa di una gestione alquanto sprovveduta del match nel finale. Errori di gioventù si scrisse, anche se sotto la maschera ottimista qualche crepa cominciò ad affiorare: un passo avanti, due indietro…

La svolta, la prima di tante in questa storia, arrivò in vista di Natale, quando le famiglie O’Shea (moglie e figlie) e Catt (moglie e figlia), a meno di cinque mesi dal trasferimento nel nostro paese, decisero di lasciare l’Italia. Colpa di un feeling mai nato, di oggettive difficoltà nella gestione scolastica delle ragazze, che erano state iscritte alla scuola internazionale di Verona, di una serie di problemi logistici ben noti a noi che da queste parti siamo cresciuti e viviamo.

Fatto sta che a gennaio 2017, alla vigilia del loro primo Sei Nazioni sulla panchina azzurra, O’Shea e Catt erano già stranieri in Italia. Addio alle visite settimanali nei club dell’allora Eccellenza, più facile fare un salto a Newport per vedere le Zebre o il Treviso contro i Dragons, oppure una visita a Gloucester per parlare con Polledri o Braley.

 

Il dottor Venter, I suppose

Dal punto di vista dei risultati, il primo Sei Nazioni fu il solito disastro: trenta punti dal Galles a Roma, sessanta dall’Irlanda, quaranta dalla Francia, pure all’Olimpico, ventinove (a zero) dalla Scozia a Murrayfield. In mezzo, il “coup de théatre” della “Fox”, il gioco di prestigio ideato da Brendan Venter che per un’ora ridicolizzò l’Inghilterra a Twickenham.

Ci aggrappammo a quello per non vedere che l’Italia era ancora lontana da essere “la migliore di sempre”, ci accontentammo di un’illusione ottica, alla quale fece seguito la dura reprimenda di O’Shea, in coda all’ultima partita del torneo. Dopo la disfatta di Edimburgo (Azzurri per la prima volta a zero contro la Scozia), nella sala stampa di Murrayfield, Conor disse che era ora di mettere da parte “egoismi e ambizioni individuali” e che bisognava lavorare tutti insieme per cambiare il rugby italiano. Con chi ce l’aveva e ci credeva veramente o erano solo parole di circostanza?

Intanto Venter al ruolo di consulente dell’Italia (un consulente un po’ particolare giacché gli erano state consegnate le chiavi del gioco della squadra…) aveva aggiunto anche quello di “aiutante” degli Springboks.

Cosicché, quando il sorteggio dei gironi per la Coppa del Mondo inserì gli Azzurri nel gruppo del Sudafrica, fu subito chiaro che Venter non avrebbe potuto essere consulente di entrambe le squadre rivali. La vicenda finì con la sua rinuncia (mai ufficializzata) all’Italia. Dopo meno di dodici mesi dall’avvio del “nuovo corso”, un altro pezzo del puzzle originario se ne andava.

 

La Nasa a Roma?

Nell’arco dei suoi quasi quattro anni alla guida dell’Italia, O’Shea ha puntato molto sull’idea di “famiglia”, di gruppo, ma anche sulla necessità di cambiare la nostra storia.

Un giorno del mese di gennaio del 2017, alla vigilia del suo primo Sei Nazioni, lo incontrammo per un caffè (lui preferiva il cappuccino…) nel vecchio borgo di Sirmione. Era una splendida giornata invernale. Il lago era blu e il cielo sereno. “Non è meraviglioso?”, disse. Aveva un’idea e l’aveva chiara.

“Conosci la storia di JF Kennedy alla Nasa?” mi chiese. La storia era suppergiù così. Nei primi anni Sessanta, il presidente degli Stati Uniti va in visita al centro spaziale americano. Gli viene presentato l’ingegnere capo della parte elettronica che dice: “qui stiamo progettando il computer che porterà il primo uomo sulla luna”. Poi Kennedy viene introdotto nel laboratorio dove gli astronauti si eserciteranno in assenza di gravità: “qui prepariamo gli uomini che per primi metteranno piede sulla luna”. Alla fine di numerosi incontri, tutti con lo stesso refrain, JFK si imbatte in una donna delle pulizie di colore che sta spazzando i pavimenti di una sala. “E lei cosa fa qui?” le chiede il presidente. “Lavoro a un progetto che porterà il primo uomo sulla luna”, risponde convinta la signora.

O’Shea sognava che l’Italia fosse la Nasa e che ciascuno degli uomini coinvolti nel nostro movimento ovale ragionasse a quella maniera.

Usò quell’aneddoto per coinvolgere i tecnici, gli addetti ai lavori, i fisioterapisti, i giocatori. Voleva un’organizzazione perfetta, in cui tutti dovevano essere coinvolti senza sbavature.

“Come pensi di farcela, in un Paese come l’Italia?”, gli domandai.

“I miei ambasciatori saranno gli stessi giocatori – rispose -. Quando verranno in Nazionale capiranno la portata del nostro progetto, lo sposeranno e lo divulgheranno in tutto il territorio, nei club, nelle franchigie, nelle serie minori. Diventerà un passa parola irresistibile, contagioso e globale. L’unica cosa che mi serve è un risultato positivo ogni tanto. Una vittoria qui, una là per far capire a tutti che la strada intrapresa è quella giusta, non ce n’è un’altra”.

 

Continua.....

 

Leggi anche: 

Conor O’Shea e l’Italrugby: c’eravamo tanto amati (Parte 2/3)

Conor O’Shea e l’Italrugby: c’eravamo tanto amati (Parte 3/3)

 

 

 

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