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Cos’è che non ha funzionato nel matrimonio tra Conor O’Shea e la Fir, un connubio che doveva cambiare dalle fondamenta il rugby italiano (parole e musica dell’allenatore irlandese)?

Le incomprensioni sono state molte, da entrambe la parti. Ci sono stati errori e sottovalutazioni. Alla fine, la separazione è stata consensuale, non una guerra dei Roses. Non importa chi abbia fatto il primo passo. Il dato più importante è stato la mancanza di risultati: un matrimonio senza figli è come un albero senza frutti. Qualcuno prima o poi lo taglia.

Note a margine sui quattro anni di Conor O’Shea e la scelta del suo sostituto. Chi dopo Rob Howley?

Articolo pubblicato su Allrugby numero 140

 

Tutto il potere al vertice

Conor O’Shea voleva che tutte le forze fossero concentrate al vertice e come vertice aveva in mente il modello inglese, o quello irlandese: una perenne ricerca della perfezione, a tutti i livelli, in tutti i ruoli: tecnici, manageriali, economici, finanziari. Sul suo computer c’erano file per ogni giocatore: dati, prestazioni, tabelle. Tutto era sotto controllo, tutto era monitorato. Mancava solo una cosa: i risultati.

 

Hai voluto la bicicletta?

Alla lunga questa sua mania di perfezione si è trasformata nella più grossa delle delusioni. Non basta conoscere il modello vincente per avere una squadra migliore. Se così fosse, copiando i più bravi, i gallesi avrebbero imparato tutti, non solo Gareth Bale e Aaron Ramsey, a giocare a pallone, e il Manchester City (con Guardiola) vincerebbe regolarmente la Champions che invece va quasi sempre a Madrid o Barcellona, al massimo a Monaco di Baviera o a Liverpool.

Questo approccio di metodo ha funzionato in UK con il ciclismo, passato dalla sola medaglia (l’oro di Chris Boardman nell’inseguimento) di Barcellona 1992 alle 12 (otto d’oro) di Londra 2012, quando O’Shea era direttore dell’English Institute of Sport (2008-2012), il centro di preparazione olimpica dei migliori. Ma nel rugby italiano non basta pedalare: le strade sono parecchio in salita, ci vogliono cuore e polmoni.

 

L’ambasciatore

A un certo punto le cose cominciarono ad andare talmente male che qualcuno face trapelare la possibile esclusione delle italiane dal PRO14, a favore delle sudafricane e delle americane. Intanto la Georgia scalava la classifica internazionale e bussava alle porte del Sei Nazioni.

Un bluff chiaramente, che però investì O’Shea di un nuovo ruolo: quello di ambasciatore dell’Italia all’estero.

Nell’autunno del 2017, il ct azzurro si caricò i nostri problemi sulle spalle e andò a World Rugby a illustrare il lavoro che stava facendo nel nostro Paese, affinché Bill Beaumont stesso si facesse garante del nostro percorso di crescita e della nostra credibilità nei circoli internazionali.

Rileggetevi l’intervista al presidente della federazione mondiale pubblicata da Allrugby alla vigila del Sei Nazioni 2018, in cui elogia il lavoro dell’irlandese e i progressi fatti dagli Azzurri sotto la sua direzione.

In quel momento c’è quasi la sensazione che O’Shea abbia un ruolo alla Mario Monti, quando l’ex commissario europeo assunse la carica di primo ministro per mantenere aperta all’Italia la porta delle UE. Conor diventa la garanzia presso tutti coloro che diffidano della nostra crescita, ma conquista per sé anche un lasciapassare personale: la ricetta è giusta, ma il paziente non vuole guarire.

 

Il percorso

O’Shea voleva un percorso di alto livello per gli atleti più forti, e nei suoi quasi quattro anni di lavoro ha ottenuto più di quanto avessero conquistato i suoi predecessori: ha portato in Italia la Pete Atkinson Ltd, è riuscito a rivoluzionare (?!) la preparazione atletica, si è avvalso di consulenti e collaboratori di ogni genere, nutrizionisti, psicologi, apneisti per la respirazione. Non è bastato. Produrre gli Itoje, i Sinkler, i May, i Watson, i Cokanasiga non è un’operazione che si può fare a tavolino. Neanche gli Hastings, i Sexton, gli Stockdale e i Liam Williams nascono per procura.

Se il rugby, da più di trent’anni, resta ancorato alle stesse otto/dieci formazioni leader, una ragione ci sarà. E per scardinare questo meccanismo l’unica soluzione non può essere quella di un’applicazione rigorosa della Bibbia del gioco. Così come nella Bibbia non ci sono tutte le soluzioni per rendere il mondo migliore.

Ogni realtà, ogni ambito necessita di una declinazione ad hoc di ricette e cure. Perfino il Fondo monetario internazionale alla fine ha dovuto rendersi conto che quello che funziona in Germania manda in malora l’Argentina la Grecia.

A proposito di Argentina: è difficile pensare che a Buenos Aires dispongano di più risorse per lo sport di quante ne abbiamo noi Italia, eppure i Pumas quest’anno hanno dato filo da torcere alla Nuova Zelanda e all’Australia nel Rugby Championship (due sconfitte di misura), la “albiceleste” è arrivata in finale ai Mondiali di basket (Italia eliminata al primo turno) ed è nelle prime dieci sia nel volley che nel calcio. Forse è un problema di attitudine più che di organizzazione.

 

 

Continua.....

 

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Conor O’Shea e l’Italrugby: c’eravamo tanto amati (Parte 1/3)

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