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Ho iniziato a fare comunicazione nel 1994 entrando nello staff di Alberto Alessi a Milano quando la sua azienda stava rivoluzionando il mondo con i progetti di design domestico che cambiarono il modo di vivere la casa attraverso la fantasia e l'immaginazione. 
Quel successo si basava su un metodo semplice, naturale e assolutamente innovativo in quell'epoca caratterizzata dall'impazzare di una pratica ferrea del marketing: era il "meta-progetto". 
Una logica relazionale di individuazione e sviluppo dei prodotti pensata come lo svolgersi di una ricerca che si faceva ascolto della realtà e di ciò che dietro ai comportamenti esisteva. 
La vita e i suoi bisogni e desideri che venivano fatti emergere non con le rigide griglie dei numeri e dei calcoli ma piuttosto delle esplorazioni, dell'intuizione verificata e della comunicazione. 
Beh oggi nel rugby ci troviamo nello stesso scenario in cui si muoveva il mercato del Made in Italy in quei primi anni novanta. 
Lo scarto che esiste fra il marketing del rugby e la domanda del rugby va analizzato e ripensato affinchè le risorse, gli investimenti attuali non restino galassie redditizie e fluttuanti come nuvole che non producono pioggia sul terreno dove i semi non sono in grado di far germogliare arbusti forti e solidi.

Detto in soldoni: se non si stimolano gli investimenti dei piccoli sponsor sul territorio attraverso lo sviluppo delle risorse umane e della cultura che sostenga i club e la base i soldi spesi dall'alto livello son fini a se stessi e son soldi relativamente sprecati nel loro potenziale di innesco di una economia del rugby collegata strettamente a dei risultati. 
Ma l'errore che si fa - a mio avviso - son sempre più convinto che non sia della Federazione che pure ha un suo ritardo nella difficoltà di uscire dagli schemi ed innovare per strade nuove. 
L'errore principale di questa difficoltà del rugby italiano è prima e fondamentalmente quello dei club. 
Senza scuse e senza ma sono i club in Italia oggi a rallentare e vanificare lo sviluppo di una vera e propria economia diffusa del rugby. 
I club che non comprendono il cambiamento dello scenario in atto, che non sanno far sistema, che non possono di conseguenza sviluppare progetti e azioni durature di marketing e comunicazione relazionale sul territorio che in questo modo finisce per non sostenerli mediaticamente ed economicamente.

I prossimi anni saranno l'epoca dei club. 
Gli equilibri degli sponsor non vedranno solo la nazionale come perno dell'economia e del nostro valore ma si moltiplicheranno. 
Pensate al valore che ha l'aver giocato una finale Seven - sport olimpico - in Cina contro il Giappone. 
Al traino che essa ha potenzialmente per attrarre investimenti e mercati per il nostro rugby. 
Nell'arco di cinque anni il Seven attrarrà il doppio e anche più della domanda di sponsorizzazioni su scala mondiale e questo per il nostro rugby nazionale che beneficerà del testimonial indiretto del turismo e del " Valore Belpaese" per offrire valore attraverso i media. 
E la produzione del valore del rugby italiano si sposterà sempre più sui club collegati ai bacini territoriali che producono economia e sponsor locali e partner internazionali. 
La Sicilia sviluppa attrattiva, Roma sviluppa turismo, Il Veneto, la Sardegna, tutte le regioni e i bacini italiani possono produrre economia che il sistema rugby può utilizzare. 
I club però devono imparare ad evolversi uscendo dalla logica padronale o associativa che rappresenta oggi un limite se non canalizzata in collaborazioni e innovazioni. 
Bisogna imparare a prendere la zappa in mano come hanno fatto i ragazzi del Miraglia e i loro dirigenti ieri per recuperare il campo di Villaseta. 
Come fece a suo tempo la Capitolina e tante altre realtà: agire non bloccarsi dietro il "si deve fare".
E questo vuol dire aprirsi a nuove metodologie di lavoro e investimento che vanno oltre il " qui ed ora subito", il difendere il " tanto così è sempre stato". I club non potranno essere più sistemi isolati ma sempre più saranno punti di una rete globale che travalica le tradizionali barriere di identità e geografia e dimensione del rugby per diventare elemento di innovazione, sviluppo e competizione. 
Solo così si riusciranno a cogliere e canalizzare quello che le nazionali italiane hanno prodotto negli anni in termini di economia e visibilità per il nostro rugby. stavolta è la federazione che deve chiedere e sono i club che devono dare risposte. 
" Tutti sanno che una cosa è impossibile da realizzare finchè non arriva uno sprovveduto che non lo sa e la inventa". 
Buon vecchio Albert tutto è relativo e oggi ancor di più. Avevi ragione tu. 

 

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