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La quinta giornata delle Coppe europee cui partecipano Zebre (Champions) e Benetton (Challenge) passerà alla storia e se ne troverà traccia negli annali per il “cambio di sede” concordato da avversari e arbitro, che ha trasferito d’ufficio Benetton – Gloucester da Monigo (terreno ghiacciato) alla Ghirada, sul sintetico di ultima generazione dove si allenano i Leoni e le giovanili di Treviso. 

Niente tribune e recinzione modello staccionata (il rugby, grazie a Dio, se lo può permettere). Altro, spiace dirlo, ma è così, da riferire o da ricordare, non c’è. Della trasferta irlandese delle Zebre (a Galway (andateci! È il cuore culturale dell’isola, uno spettacolo da non perdere) si è parlato più per riportare i problemi di cassa della franchigia di Parma (costretta a due viaggi Emilia – Irlanda in 7 giorni onde evitare dispendiosi pernottamenti in hotel) che per tentare una disamina tecnica dell’evento. Succede. Quando si prende parte (di diritto) a una competizione al cui livello medio è consentito avvicinarsi solo di striscio o per fortunata coincidenza. Come sia andata ce lo hanno raccontato le cronache: nel torneo “dei fortissimi”, le Zebre hanno sfiorato quota “70punti subiti” in casa del Connacht (qualcuno si ricorda i primi anni di Celtic, quando era la franchigia laboratorio del rugby irlandese e beccava praticamente da tutti?), Treviso ne ha presi 41 (a zero!) mai rischiando di entrare palla in mano nei 22 degli inglesi. Non che fosse lecito attendersi di più: Treviso ha un’infermeria che farebbe tremare le vene dei polsi a Madre Teresa (non ci sono lebbrosi, è vero, ma di gente che ha un conto aperto con la sfortuna e la malasorte…), le Zebre hanno tutto il diritto di “pensare ad altro” che non siano le botte da rifilare e da rimediare in campo, prese e sballottate come sono fra notizie di smobilitazione e di serrande abbassate che si rincorrono. Ma detto dei bravi ragazzi, che nonostante la palese inadeguatezza e l’enorme divario qualitativo con il resto del mondo ovale, qualcosa che assomigli a impegno e dedizione continuano a dimostrarlo, resta il fatto che due formazioni italiane inserite nelle due competizioni per club più prestigiose del pianeta ovale sono,a tutti gli effetti, un non senso. Perché è vero che anche lo sport deve essere (a modo suo) inclusivo. Ma includere non significa far salire chiunque sul ring a sfidare Apollo Creed. A meno che non si tratti di una storia in celluloide, falsa. La competitività è tutto tranne che qualcosa di evanescente, di liquido (per dirla con il povero Bauman), di aggirabile e di malleabile. La competitività è sudore e fatica, investimenti e saggia amministrazione, interesse indotto e passione. Niente che possa purtroppo essere accreditato come dote che le due franchigie tricolori siano in grado (oggi, 2017) di portare in dote. 

Certo, i professionisti del sorriso stanco ma perenne non mancano. Il giorno della formazione dei gironi qualcuno azzardò che Treviso avesse “fatto bene” a classificarsi ultimo del Pro 12. “Perché in Challenge” argomentò l’esperto di turno davanti allo spritz con doppio Campari delle 10 del mattino “in girone con La Rochelle, Bayonne e Gloucester, la nostra porca bella figura possiamo sempre farla”. E infatti… Bayonne a parte (la squadra di Cittadini), i numeri ci dicono come è andata o sta per finire. 

Altro il discorso per le Zebre in Champions. Delle squadre del lotto inserite nel girone del XV di Parma, l’unica abbordabile pareva Connacht, dal momento che anche in coma etilico, nessuno affermerà mai che tali appaiano Tolosa e Wasps. Appunto…

Solo un dato, a chiudere il cerchio: quello riferito al pubblico. A Galway, a vedere i propri beniamini rifilare il tariffone alle Zebre, erano in 5607 sugli spalti, mentre a Begles, per Bordeaux-Clermont i paganti erano poco meno di 22 mila. E in Challenge, detto dei 700 (stimati a occhio) intorno al recinto in Fondazione, restano da registrare (alla voce: magari!) i 6850 di Grenoble contro Newcastle e i quasi 14 mila di Bristol contro Bath (22-57 sul campo).

Georges Coste sosteneva (primi anni 2000) che il rugby mondiale “procede a due velocità”. Ma che a fare la differenza non sono le velocità di punta, ma le accelerazioni. “Se io procedo a 60 all’ora e accelero del 100 per cento, arriverò a 120. Ma se il mio avversario, che come me raddoppia la velocità, parte da 90, io continuerò a vederlo solo da dietro”. È quanto, in questi anni è capitato al rugby italiano. Che è cresciuto, e anche in maniera considerevole sul piano della qualità complessiva (chi lo nega sbaglia o mente sapendo di mentire), ma lo ha fatto (volendo essere ottimisti), con lo stesso ritmo e con gli stessi incrementi degli altri. Quelli che, per dirla con il grande Georges “correndo come stiamo correndo, non raggiungeremo mai”. 

 

Risultati e classifiche di Champions Cup

Risutati e classifiche di Challenge Cup

Foto Benetton Rugby