Lunga vita a Jonny W

A due partite dalla fine della carriera professionistica, quella che ha percorso la fine del ‘900 e i primi quattordici anni del nuovo millennio, a Jonny Wilkinson mancano 21 punti per tagliare quota cinquemila. Sono tanti? Ronan O’ Gara, altro principe dei marcatori, in un percorso quasi altrettanto lungo e baciato da successi innumerevoli, sebbene non ugualmente omerici, di punti ne ha realizzati 3.407. Questo per dare una dimensione alle differenze.
Jonny Wilkinson è un giovane uomo e un atleta segnato dal tempo.
Di “Wilko” si è detto e scritto tanto, e lui stesso si è prestato, di recente, a una conversazione sui suoi studi di meccanica quantistica (“Rugby quantistico”, Add editore, vedi recensione in Allrugby numero 70) nella quale ha cercato di mettere a nudo alcuni degli aspetti più originali della sua personalità (“Dovevo sempre fare qualcosa di più e di meglio, rispetto a gli altri– ha raccontato --: le classifiche, i numeri mi ossessionavano. Ma in questo modo è impossibile essere in pace con se stessi! È allora che mi sono prefissato un obiettivo superiore: cercare quello che c’era di meglio dentro di me”). Eppure, nonostante la fama e la popolarità, molti dei meandri del suo carattere restano indecifrabili, inafferrabili i suoi pensieri, inavvicinabile il profondo del suo cuore.
“Mai la scheggia di ghiaccio che alloggia nella sua anima fu più evidente che allo scoccare del 100° minuto della più grande partita nella storia del rugby inglese ”, scrisse Richard Williams del Guardian, all’indomani del successo dell’Inghilterra sull’Australia, alla Coppa del Mondo 2003.
Venti minuti prima di quell’apoteosi, mentre lo stadio di Sydney ribolliva di passioni e il tifo sulle tribune si faceva assordante, Clive Woodward, il nocchiero della squadra inglese, era sceso dalla sua postazione in tribuna per dare a Wilkinson qualche consiglio in vista dei tempi supplementari. Gli altri giocatori erano tutti radunati intorno al capitano Martin Johnson, Woodward, invece, voleva parlare con Wilko, solo con lui. “Volevo dirgli di non preoccuparsi di nient’altro che di calciare la palla il più profondo e lontano possibile ogni volta che gli fosse capitata in mano – racconterà sir Clive, qualche tempo dopo -. Volevo spiegargli di giocare lungo, dietro le loro ali”.
Wilkinson, invece, stringendo in mano un tee e con la palla sotto il braccio, aveva altre preoccupazioni: “Devo provare qualche piazzato”, diceva. “Non c’era verso che mi stesse a sentire”, si dovette arrendere l’allenatore che, pertanto, indirizzò i suoi consigli a Mike Catt.
Jonny non aveva avuto l’opportunità di tentare un calcio ai pali per l’intero secondo tempo e, ora, in mezzo a quella bolgia, la cosa che gli premeva di più era continuare a esercitarsi prima che cominciassero i supplementari.
Come è finita lo sapete. Quello che i giornali australiani avevano definito un “noioso, egocentrico idiota”, mise a segno il drop che conquistò per l’Inghilterra l’unico titolo mondiale finora ottenuto da una nazione dell’emisfero nord.
Eppure sul campo non ci furono atti di giubilo da parte del prode vincitore, né foto con la fidanzata Diana Stewart che, insieme alla mogli e alle partner dei compagni di squadra, si era fiondata sul prato per festeggiare.
Wilko andò a cercare pace nella stanza dei massaggi: “volevo raccogliere i miei pensieri – dirà -, le emozioni di quel momento non le dimenticherò più, ma non sono eterne e io le volevo assaporare fino in fondo. Ho pensato a quanto lunghe e dure erano state quelle otto settimane, quanto avevano significato per tutti”.
Jonny è uno che non smette di chiedersi il come e il perché delle cose, che si interroga costantemente sul significato dei successi e della vita. E’ un Achille con tutti i dubbi e le debolezze umane di Ettore.
A Sydney, dopo il match, volle che nelle foto, di fianco a lui, oltre a Dawson e Greenwood, ci fosse Mike Catt, l’uomo che era stato richiamato in squadra proprio per togliergli un po’ di pressione di dosso. E volle ringraziare Paul Grayson, cui quattro anni prima aveva tolto la maglia della Nazionale, per l’enorme influenza esercitata su di lui.
Una carriera straordinaria martoriata dagli infortuni: anche questo ha contribuito alla leggenda di Wilko, il giocatore che in un calcio piazzato, o in un placcaggio, cerca il senso della vita. Tra il dicembre 2003 e il febbraio 2007 Jonny the great ha mancato per infortuni la bellezza di 30 partite della Nazionale inglese con la cui maglia ha realizzato 1.179 punti in 91 match, a una media di quasi 13 a incontro. Se di quelle trenta ne avesse giocate almeno una ventina, il suo bottino internazionale oggi sfiorerebbe i 1.500 punti. Dan Carter, il suo principale rivale nella classifica internazionale dei marcatori, ne ha messi a segno 1.432 in cento partite con la maglia degli All Blacks.
Nei quattordici anni della sua carriera internazionale, l’Inghilterra, con Wilko in squadra, ha giocato 91 partite e ne ha vinte 66, con una media si successo del 73%, Jonny assente, nello stesso periodo, la nazionale inglese ha vinto 33 partite su 69, un misero 47% del totale.
Il giovane uomo è diventato un vecchio giocatore leccandosi le ferite e imparando a contenere le reazioni. La solitudine che spesso ha cercato sul campo, per non distrarsi nei momenti topici dei match (“immagino una ragazza seduta in tribuna, dietro i pali, e miro alla sua lattina di Coca Cola”) lo ha accomunato anche fuori dal terreno di gioco.
Come nel 2009 quando si trasferì a Killington, nel Vermont, per la riabilitazione dopo l’operazione a un ginocchio.
Tutto intorno c’erano solo impianti e piste da sci, e per gli sciatori nordamericani Jonny Wilkinson era solo “Jonny who?”, uno sconosciuto inglese che zoppicava in palestra e di sicuro non calzava gli sci. Al supermercato, se comprava una bottiglia di vino, le cassiere gli chiedevano i documenti. Al cinema ci andava da solo.
Eppure non mancava di far sapere che il meglio di sé avrebbe potuto arrivare “domani”. “Lo so, lo vedo, me lo posso figurare davanti agli occhi – spiegava -, quando sarò di nuovo in campo, sarò in grado di essere al massimo, come prima e più di prima”.
Jonny, tra Premiership, coppe europee, Nazionale inglese, Top 14 francese e British Lions, Sei Nazioni e campionati del mondo, nell’arco di un carriera che dura da più di sedici anni, ha giocato oltre 400 partite di primo livello senza ricevere neppure un cartellino giallo. Anche questo è un record, forse quello che più rispecchia il sua carattere e la sua personalità.
Sia nella finale di Heineken Cup (sabato prossimo a Cardiff, contro i Saracens) che in quella di Top 14, la settimana successiva contro il Castres, ci perdonerete se faremo il tifo per lui.
Foto Fotosportit riproduzione riservata
Approfondimenti e molto altro ancora nel prossimo numero di ALL RUGBY!! Abbonati subito!
ISCRIVITI AL SOCIALNETWORK DEL RUGBY!!!
Il Video tributo a Jonny Wilkinson sulla musica delle Rugby World Cup: