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Più di un dirigente sportivo mi ha confessato che la parte più difficile del suo lavoro non ha più a che fare con l'organizzazione, con la programmazione o con i risultati dell'attività sportiva, ma piuttosto con la gestione dei genitori degli atleti delle giovanili (e non solo delle giovanili).

Alcune società sportive, in tutti gli sport, arrivano a vietare ai genitori di assistere agli allenamenti dei ragazzi. Padri e madri diventano infatti invadenti, non si fidano dei tecnici, intervengono direttamente con i propri figli e credono di avere la formula magica per farli diventare campioni.

Alcuni tra di loro sballonzolano i figli tra diverse società, mai soddisfatti della preparazione che ricevono. Fanno bere caffè ai ragazzini prima delle partite. Magari sono completamente assenti nella vita di tutti i giorni dei figli, ma quando si tratta di vincere la loro presenza diventa opprimente.

Sbagliano. Ed è giusto che lo sappiano, anche se qualcuno di loro leggerà con sufficienza questo articolo, con la stessa espressione di disprezzo che compare sul loro volto quando vedono il figlio o la figlia sbagliare qualche gesto in campo.

E' naturale, sia chiaro, che un genitore sia sotto pressione quando sta in tribuna da spettatore, soprattutto in sport di contatto. Non è naturale invece che cerchi di sfogare questa pressione sui suoi ragazzi, sulla società o su chi gli capita intorno. Cosa può fare, oltre a intraprendere un percorso di serena accettazione delle sue emozioni?

Dovrebbe informarsi bene su ciò che può davvero fare per aiutare suo figlio. Di cosa ha bisogno un atleta, magari giovane, per performare al meglio e per poter davvero allenarsi alla vita con lo sport?

Tralasciando gli aspetti tecnici, che devono necessariamente essere di competenza degli allenatori (e le società dovrebbero metterlo esplicitamente in chiaro, da subito), mi concentrerò su due soli aspetti che riguardano attitudini e comportamenti.

 

Un atleta ha bisogno di fiducia. Deve sentirsi supportato in modo chiaro e inequivocabile. Deve sentirsi giudicato in modo sereno, partendo sempre e comunque dai suoi punti di forza. Come può aver fiducia in se stesso un atleta che percepisce dubbi, incertezze e punti di domanda dalle persone che dovrebbero volergli più bene? Un genitore deve quindi incoraggiare sempre il proprio figlio. E quando lo vede sbagliare, può serenamente stare in silenzio e attendere che l'allenatore dica quello che ha da dire: nessun campione è diventato tale per le indicazioni del padre dalla tribuna.

Un atleta ha poi bisogno di gestire la giusta qualità e quantità di aspettative. Raggiungerà la sua prestazione ottimale rimanendo concentrato sui singoli gesti e questo diventerà di certo impossibile se la testa è altrove, se i pensieri sono volti a cercare di accontentare i desideri extra sportivi di altre persone.

Purtroppo alcuni genitori hanno raccolto alcuni cattivi esempi amplificati dai media. Sto parlando di chi ha trasformato l'attività sportiva dei loro figli in un'ossessione ed è stato in qualche modo premiato dai risultati raggiunti. Molto famoso l'esempio del padre di Andre Agassi, descritto nell'autobiografia del tennista.

E' giusto che si sappia che sono casi limite: anche così, chi raggiunge il successo fa parte di una frazione infinitesima del totale di chi ci prova. Raggiungere il successo a tutti i costi può generare a volte campioni, ma più spesso dei frustrati, incapaci di socialità e di trovare o ritrovare la propria strada. Nello sport professionistico sono descritti sempre più casi di problemi di salute mentale: è questo che cerchiamo per i nostri figli? Un contratto professionistico per qualche anno (in media di basso livello) e una serie di problemi che si porteranno dietro per tutta la vita? Se dobbiamo cercare un esempio da seguire, prendiamo uno di quei giocatori professionisti che in campo riesce ancora a sorridere, a divertirsi giocando: se mai esisterà un segreto per una prestazione sportiva eccellente, divertirsi è quello che ci si avvicina di più.

 

Foto Elena Barbini