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Silvia Turani, prima linea del Colorno e della Nazionale femminile, aveva già raccontato qui a Rugbymeet la sua veloce ascesa nel mondo del rugby. Siamo tornati a sentirla per approfondire le attitudini e le prospettive del rugby femminile, e non solo.

 

Ciao Silvia e grazie della tua disponibilità. Partiamo dal Mondiale maschile, che si è appena concluso. Si è parlato molto di Inghilterra – Nuova Zelanda e della sfida degli Inglesi che è iniziata di fronte alla Haka. Questi atteggiamenti di sfida, possono avere un ruolo ben definito nei match?

Molto, moltissimo. Quella partita lo ha mostrato in modo eclatante, ma a noi del Colorno è capitata una cosa simile due-tre settimane fa quando siamo andate a giocare a Roma con la Capitolina e loro sono riuscite a vincere perché già prima del match, anche nel saluto, ci hanno fatto percepire un livello di tensione superiore al nostro e il risultato si è visto anche in campo. Mettere poi in campo qualcosa di diverso come ha fatto l’Inghilterra davanti alla Haka puo’ rompere la concentrazione dell’avversario. A me hanno colpito molto anche le urla delle ragazze della nazionale inglese, soprattutto in touche. Loro si caricano e ti mettono timore, anzi non proprio timore, le vedi come una squadra ancora piu’ compatta.”

 

Tornando a te: cosa hai trovato nel rugby che non avevi trovato negli altri sport?

Come sapete ho iniziato a giocare tardi. Negli anni precedenti, già dagli 11 o 12 anni, avevo sofferto di anoressia e bulimia e questo mi portava a vedere il mio corpo come un fine ultimo da soddisfare; anche lo sport era finalizzato a un discorso estetico. Quando ho iniziato a giocare a rugby la mia vita ne è risultata sconvolta, puo’ sembrare una frase fatta, ma è così. E’ cambiata la mia quotidianità, ma anche il mio progetto di vita. Il rugby mi ha concesso di incanalare le mie energie in modo positivo piuttosto che negativo, di darmi obiettivi personali e sportivi. Senza nessuna imposizione, per la prima volta dopo molti anni, il mio corpo è diventato un mezzo e non un fine. E’ stata una cosa graduale e mi ha aiutato anche il far parte di una squadra, perché le paranoie che ti fai da sola se le condividi insieme alle compagne nel bene e nel male vengono ridimensionate. All’inizio è difficile perché c’è bisogno di inserirsi, ma col tempo diventa tutto piu’ facile. Oggi a distanza di tempo quello che mi da il rugby è la possibilità di vivere il momento qui e ora, senza preoccupazioni sul perfezionismo. La cosa importante è che non bisogna per forza aspettare di stare bene per iniziare un’attività, ma è importante iniziare a fare qualcosa di nuovo per vedere le cose migliorare.”

 

L’approccio al contatto fisico come l’hai vissuto, iniziando così tardi?

Andare a contatto mi è venuto subito naturale, forse aiutata anche da una fisicità importante. Avanzare a contatto è una delle fasi del gioco che mi piace di piu’. C’è sempre da ribadire il fatto che bisogna andare a giocare preparati, non ci si puo’ improvvisare.”

 

Parliamo dell’ambiente della Nazionale femminile. Sei arrivata in un momento di passaggio generazionale, ma non si è sentito piu’ di tanto e si continua a parlare del vostro come di un spogliatoio molto unito. Volevo chiederti: c’è un lavoro specifico da parte dello staff dietro a questo risultato o si tratta semplicemente di un gruppo di giocatrici che si conosce e si trova bene insieme?

Il passaggio è stato graduale e tante ragazze si conoscono ormai da tempo, provenendo da un numero limitato di squadre. Ci si conosce anche al di fuori dell’ambiente della Nazionale e questo aiuta, anche perché non ci vediamo così spesso nel corso dell’anno. Ci sono comunque tante belle persone con tanti interessi che vanno oltre il rugby che ci aiutano a vivere il rugby con la giusta pressione. Aggiungo che, come saprai, nello staff c’è anche una psicologa.”

 

 

 

 

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