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Secondo il presidente federale Carlo Tavecchio è un segno di modernità. Per Zinedine Zidane sarà fonte di confusione. Si chiama VAR, puntato, che sta per video assistant referee. La mitica moviola in campo che tanti addetti ai lavori da anni invocavano e che finalmente ha fatto il suo debutto (sperimentale, per due stagioni) nel nostro calcio di serie A. I calciatori, è bene chiarirlo subito, non hanno “copiato quelli del rugby”, come molto semplicisticamente qualcuno aveva annunciato. E nemmeno il basket che concede anche agli allenatori la facoltà di far ricorso alle immagini ripetute per provare a cambiare la decisione dei fischietti in campo. In comune (senza scomodare il tennis e il football americano che qualcosa di simile comunque hanno introdotto nei loro regolamenti, e non da ieri) le varie declinazioni di “arbitraggio tecnologico” attualmente in vigore, hanno l’assunto fondamentale secondo cui, dal momento che l’arbitro, essendo essere umano, è costituzionalmente portato a sbagliare, si cerca di ridurre il margine del suo errore affiancando al suo potere decisionale quello consultivo dell’elettronica.

Il che, in assoluto, non è né un male né un bene. Fatto salvo l’indubitabile fascino della fallibilità umana che, secondo alcuni irriducibili “romantici”, dovrebbe continuare ad avere pieno diritto di cittadinanza nel cuore di un’attività aleatoria e indefinita negli esiti com’è la competizione sportiva. Inseguire il mito dell’assoluta oggettività del giudizio arbitrale e, conseguentemente, della sua infallibilità, è a tutti gli effetti una sciocchezza. Lo sanno i giocatori, alcuni dei quali hanno vinto o perso sfide importanti per un cambio malandrino del vento o per l’imprecisione millimetrica nella valutazione di una linea di fuorigioco. Lo sanno anche i tifosi meno incarogniti dal settarismo e dalla voglia di caciara, e con loro i dirigenti, compresi quelli arbitrali, che hanno a cuore le sorti dello sport ma evitano di rincorrere gli aquiloni colorati della perfezione su questa terra e della giustizia giusta anche se amministrata da bipedi col pollice opponibile.

Dovendo scegliere se schierarmi con il presidente Tavecchio o con Zidane, scelgo il berbero. Anche perché, letto e studiato da uno che quotidianamente si occupa di rugby, il protocollo in uso sul fronte del calcio (il Var sport, come lo ha ribattezzato la nuova DS della Rai) ha poco da spartire con quello ovale. Forma esteriore a parte.

La differenza sostanziale sta nel fatto che, mentre nel rugby, il ricorso alle immagini può essere  chiesto solo dal direttore di gara, nel calcio è previsto che il meccanismo di analisi e revisione possa nascere anche dalla segnalazione degli addetti al video (sono due). Nel rugby sarebbe come se il TMO interrompesse l’incontro comunicando all’arbitro di campo che secondo lui c’è un’azione che merita di essere rivista, in quanto potrebbero ricorrere gli estremi per un cambio della decisione assunta.

Il protocollo VAR si innesca solo per quattro fattispecie: gol, calcio di rigore, espulsione, scambio di persona. Nel rugby il TMO, in origine incaricato solo di rispondere a quesiti riferiti alla segnatura di una meta, oggi può intervenire, fornendo risposte alle domande poste dall’arbitro. In assenza di un provvedimento che ne specificasse la natura e ne limitasse gli ambiti, è accaduto che i quesiti posti abbiano spaziato dal piede sulla linea, al drop entrato o meno, al passaggio in avanti, al placcaggio anticipato, al fallo di reazione e altre decine di situazioni non chiare. In Francia molti allenatori hanno criticato un tale indifferenziato ricorso all’uomo in regia. Lamentando che, da un lato, esso tende a deresponsabilizzare il direttore di gara, dall’altro dilata i tempi della competizione in maniera a volte insopportabile e insensata.

Altra differenza fra i due sistemi è l’acceso alle immagini. L’arbitro di calcio ne prende visione su un video posizionato all’altezza del centro campo a lui e a lui solo riservato, quello del rugby, al massimo, rivede l’azione sul tabellone elettronico dello stadio insieme agli spettatori (diritto negato ai tifosi della palla rotonda, chissà perché). E qualche volta, anche agendo formalmente al di fuori del codice di comportamento, ha cambiato o mantenuto la decisione presa sulla base di quanto osservato a posteriori.

Una cosa è certa: chi pensa che con il VAR cesseranno gli errori di valutazione si sbaglia. E lo stesso faranno quanti confidano nella fine delle discussioni post gara, soprattutto quelle televisive e in rete. Si rassegnino. Non accadrà mai. Anche per una mera e pelosissima questione di posti di lavoro. Chiedere a quella parte di mondo dell’informazione che vive e a volte prospera solo grazie alle risse verbali e alle interminabili discussioni del dopo triplice fischio, di tacersi e, di fatto, di scomparire alla vista (leggasi: andare a lavorare), sarebbe come chiedere ai tacchini di votare una legge che istituisse tre Natali, o agli abbacchi il raddoppio della Pasqua.

Per chiudere, un saluto particolare al grande Marco Tardelli, che nella prima serata televisiva del dopo Var, davanti al capo degli arbitri italiani, ha sostenuto la necessità di far partecipare alla visione delle immagini e alla definizione della conseguente decisione “non solo l’arbitro, ma anche i giocatori”. Tardelli è toscano di Lucca, e come sanno fare solo quelli nati da quelle parti, quando decide di prendere per il culo qualcuno o di mandare in vacca qualcosa tocca vette, per noi comuni mortali, assolutamente irraggiungibili. Inviolate.