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Articolo pubblicato su Allrugby numero 143

Al nuovo coach dell’Italia, capo per il momento soltanto fino alla fine del Sei Nazioni - poi si vedrà - riferiamo il senso di scetticismo comune che da qualche anno, ormai, accompagna l’arrivo dei nuovi allenatori della Nazionale: “eccone un altro...”. La sintesi è brutale, ma questa è la realtà dopo i 42 mesi di O’Shea, i cinque e passa anni di Brunel etc etc.

“Grazie del messaggio di benvenuto, giusto per non mettermi pressione - scherza Franco Smith -, ma io non arrivo...io mi sento uno di qui, sono uno di voi”. Il suo sodalizio con l’Italia è cominciato a Modena, a metà degli anni Novanta, è proseguito a Bologna (“ma lì sono stato solo quattro mesi, per dare una mano a Jannie Breedt, nel 2002”, spiega), è continuato da giocatore a Treviso, tra il 2002 e il 2005, prima di diventare coach del Benetton dal 2007 al 2013, con due scudetti e il passaggio dal campionato alla Celtic League.

Insomma dei suoi 47 anni, Franco ne ha trascorsi almeno un quarto in Italia. Dunque potremmo metterla così: è il primo “italiano”, o quasi, a guidare l’Italia nel Sei Nazioni dopo John Kirwan, che fu coach tra il 2002 e 2005. E, dopo Kirwan, è uno dei pochi che in campo parlerà italiano. Negli ultimi anni si usava l’inglese e basta.

 

Morale: Smith sa quello che lo aspetta, non ci saranno alibi o scuse, l’Italia non sarà per lui una sorpresa. “No, no lo sarà - assicura - ho vissuto tanto tempo in questo paese, ho imparato molto giocando e allenando da voi, e sono molto orgoglioso del ruolo che mi aspetta. Sono fortunato perché conosco le persone, gli allenatori, alcuni di quelli dell’Eccellenza - come si chiama oggi, Top12? - sono stati miei giocatori, come Andrea Marcato, ho sempre seguito la Nazionale da quella di Berbizier a quelle di Nick (Mallett, ndr) e Brunel. La mia famiglia ha vissuto più a Treviso che a Bloemfontein, i miei figli hanno cominciato a giocare a rugby in Italia. Quindi io conosco anche i pregi e i difetti del sistema. Anche in questi anni ho sempre tenuto i contatti con “Pava” (Antonio Pavanello, ndr) e Goosen e molti dei giocatori della Nazionale li ho lanciati io a Treviso, quindi so benissimo come sono cresciuti, quale è la loro storia”.

 

Bene, sai anche allora che ci sarà molto da fare.

“Ovviamente, non voglio assolutamente fare la parte di quello che entra in un posto e comincia a criticare. Il mio obiettivo è migliorare le cose, se possibile, io ho sempre cercato di migliorare innanzitutto le persone, cercando di fare in modo che ognuno dia il meglio di sé. Si può sempre fare meglio, chiunque lo può fare. Vorrei creare un’identità, in modo che chiunque possa portare il suo contributo, lasciare un’eredità. Penso al Manchester United, una storia che va oltre i suoi giocatori, i suoi dirigenti, i suoi allenatori, chi va lì entra a far parte di un sistema che spinge ciascuno a dare il meglio di sé. Ecco questo è il mio obiettivo, creare una legacy”.

Già, ma intanto l’incarico di head coach è solo per sei mesi...

“Permettimi di non entrare in questa questione. Dico solo che dove ho lavorato i risultati si sono cominciati a vedere dopo tre/sei mesi. Il mio obiettivo è di fare il massimo in questo periodo. Poi se dovessi essere confermato, sarei onorato di continuare a guidare l’Italia”.

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