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Andrea Lovotti ha sbagliato, lo ha ammesso e si è beccato tre settimane di squalifica insieme al compagno di “ribaltamento” Nicola Quaglio. Sulle sue responsabilità non ci sono dubbi, così come su quelle di Quaglio complice di quella pericolosa e scellerata pulizia in ruck su Duane Vermeulen. Molti, moltissimi dubbi dovremmo invece riservarli a tutti quei tifosi che hanno sentito la necessità immediata di riservare al miglior pilone sinistro italiano una caterva di insulti, così come si usa fare nell'epoca dei social network seduti comodamente sul divano.

Leggere tutti quei commenti sprezzanti e completamente privi di una minima empatia mi ha portato a riflettere sul vero significato che molti sportivi italiani riservano ai “valori superiori” che il rugby vanterebbe rispetto a altri sport e, in particolare, al concetto di sostegno.

Se il sostegno è più di un gesto tecnico, ma riflette un'intera filosofia incentrata su un vero gioco di squadra, è ovvio che ha un vero valore quando si tratta di sostenere qualcuno in difficoltà. Troppo facile sostenere qualcuno nel momento del successo. Troppo facile correre dietro a un compagno solo sperando di ricevere un comodo passaggio a un metro dalla linea di meta.

Beh, per molti tifosi sembra che il concetto di sostegno non valga proprio nel momento di maggior bisogno, cioè nel momento dell'errore, per quanto stupido o evidente. Il compagno di squadra che sbaglia è quindi solo una pecora nera da isolare e perseguitare.

Ironicamente, quei commenti ci raccontano l'incapacità di gestire lo stress da parte dei telespettatori, che è esattamente lo stesso problema mostrato da Lovotti nell’intervento su Vermeulen. Non c'è logica nel gesto di Lovotti, trascinato dall'adrenalina dopo il fischio dell’arbitro, così come non c'è logica negli insulti e nei richiami alla ghigliottina dei tifosi italiani, chiamati ad assistere a un partita chiaramente impossibile da vincere.

Un discorso è la critica tecnica, anche aspra, mentre un altro discorso è la ricerca del capro espiatorio a tutti i costi. “Se avessimo segnato in quell'azione...” dicono molti, dimenticando che già tre volte, nel primo tempo, ci eravamo affacciati sui cinque metri sudafricani senza altro risultato che farci strappare l'ovale dalle mani.

Il rugby è sport spietato e tutti gli spettatori onesti sapevano che avremmo perso, più o meno largamente a seconda della bontà della nostra prestazione. Troppo grande il divario tecnico, tattico e mentale. Quello che non ci possiamo aspettare è che la squadra, dentro e fuori dal campo, non sia vera squadra: questa sarebbe la sconfitta peggiore di tutte.

Cosa ci insegna allora questo episodio dal punto di vista della gestione mentale? Ad Andrea Lovotti, che nelle interviste pre-partita era stato il più deciso nel parlare dell'importanza della mente, mi auguro che insegni a insistere nel migliorare ancora le proprie attitudini, ben sapendo che si tratta dell'aspetto più complesso della prestazione sportiva. Mi auguro allo stesso tempo che Andrea riesca a mantenersi allo stesso tempo rigoroso e gentile nei suoi stessi confronti, nonostante la bufera che ha intorno: abbiamo bisogno di lui come uomo e come atleta.

Mi auguro poi che questo episodio nero faccia riflettere i tifosi sullo sport come vera scuola, metafora ed esempio di vita: dovremmo utilizzarlo non tanto per buttarci dentro le nostre frustrazioni, quanto per tirarne fuori quelle energie vitali che possano migliorare continuamente il resto della nostra società.

 

Le immagini dell'esplusione di Andrea Lovotti in Sudafrica - Italia

 

 

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Foto Daniel Cau

 

 

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