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Sembra ieri, almeno a noi che abbiamo un Pantheon di forma ovale nel cuore e nella testa, il giorno in cui ad andarsene da questa terra fu Jonah Lomu. Era il novembre del 2015. Allora, un pezzo della nostra memoria si cristallizzò, inchinandosi alla strapotenza disarmante del fato che aveva deciso di rapire il Re Leone che tanto e tanti aveva fatto sognare. E invece, 15 mesi dopo quell’infausto giorno di lutto universale, a salutarci per sempre è stato l’uomo che in quella fiabesca finale della Rugby World Cup 1995, all’Ellis Park di Johannesburg, fu l’unico in grado di placcare l’implaccabile e inafferrabile Jonah. Lui, Joost Van der Westhuizen, J9, come recita la ragione sociale della Fondazione da lui voluta e promossa, che si occupa di ricerca scientifica. 

Se n’è andato a 46 anni, al termine di una crisi, l’ennesima, che la Sla aveva imposto al suo fisico ormai duramente provato da sei anni di lotta senza quartiere contro il male. Per 89 volte Springbok, dal 1993 al 2003, 38 volte in meta, tre World Cup da giocatore, orgoglio e vanto dei Blue Bulls, il club della sua città d’origine, Pretoria, fino al 1997 capitale del Northern Transvaal. 

Il suo nome resta indissolubilmente legato al “quella” finale mondiale. La partita con Nelson Mandela in tribuna e poi in campo, quella che ispirò Clint Eastwood e il suo Invictus. Dalle mani di Joost partirono i passaggi millimetri che armarono il piede di Joel Stransky capace per due volte (decisiva fu la seconda all’over time) di violare la porta neozelandese con altrettanti drop che scrissero la storia di quella edizione della competizione iridata. Che storica lo fu per definizione, avendo restituito al mondo dello sport una terra, il Sud Africa, che per anni era stata tenuta ai margini ed esclusa. Del Van der Westhuizen mediano di mischia in netto anticipo con in tempi per competenze atletiche, attitudine al combattimento e inarrivabile acume tattico, parlano i filmati. La sua sempre accorta e attenta regia, dietro un pack potente ma non facile da domare e da far muovere secondo logica e strategia, resta a disposizione di quanti volessero apprendere l’arte del condottiero in campo. Certe sue decisioni apparentemente scriteriate, certi suoi richiami all’ordine all’indirizzo di compagni di reparto non esattamente concentrati sul compito da svolgere, persino certe sue occhiate scambiate con i direttori di gara appartengono alla bibbia di questo sport. Non al freddo e piatto mansionario del travet in maglia colorata e calzoncini corti, ma a quella sublime miscela di genio, talento e qualche grammo di sregolatezza, che distingue i buoni giocatori dai grandi, e ai grandi dai grandissimi. Joost, cui Jonah Lomu fece visita in più di un’occasione negli ultimi tribolati anni della sua sfortunata esistenza (video a fondo pagina), lascia due figli, Jordan e Katye, la moglie, che di nome fa Amore. In tutti noi, resta un terribile senso di inadeguatezza e di paura. Oltre che di sgomento. Perché di quella irripetibile Armada verde oro campione del mondo più di venti anni fa: Tinus Linee (centro di Western Province) è morto di sla, Ruben Kruger (terza linea originario di Free State) di una forma maligna di tumore al cervello e André Venter (flanker originario del Transvaal), attualmente su una sedia a rotelle, è affetto da mielite trasversa. Tutti poco più che quarantenni.