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Il dibattito sul dilettantismo è stato centrale nella storia del rugby per un intero secolo, compreso fra le due date chiave del 1895 e del 1995. Cento anni, da quando cioè si è consumato in Inghilterra lo scisma della Northern League, lasciando al codice a XV giocatori il ruolo di custode dell’ideologia elitaria del “gentleman amateur”, fino a ridosso ormai del terzo millennio allorchè l’International Board ha definitivamente aperto l’era pro in coincidenza con il Mondiale sudafricano.

In mezzo l’impegno del rugbista dilettante ha conosciuto mille sfumature nello stesso mondo britannico, dall’intransigenza inglese e scozzese agli strappi sul cosiddetto “boot money” dei gallesi. A varie latitudini si è assistito ad ardite evoluzioni, fra il francese “amateurism marron” e il “dilettantismo di Stato” della Romania imbattibile per gli azzurri negli anni di Ceausescu. La resistenza al professionismo, in ogni caso, ha di fatto rappresentato un freno allo sviluppo verso la commercializzazione del gioco, come avvenuto invece per altre discipline. Il rugby è stato così a lungo lo sport che più di ogni altro è stato praticato per il piacere dei giocatori, prima che del pubblico.

Quanto all’Italia

Quanto all’Italia, il tema è stato declinato nel tempo in una forma a sua volta peculiare. Al momento del suo primo lancio, alla fine degli anni Venti, il rugby viene presentato come alternativa ad un calcio che fa già indignare per gli eccessi del tifo e per gli interessi economici che coinvolge. Al momento della prima seduta della Fir, il 30 novembre 1928, si afferma che «il giocatore tesserato deve essere ad ogni effetto un dilettante, esempio indiscusso di laboriosa attività nella vita privata e professionale». Il presidente Giorgio Vaccaro dichiara: «Mio intendimento assoluto è che al contrario di quanto avviene negli sports a larga base popolare, calcio, ciclismo, pugilato, il giuoco del rugby debba mantenersi su una linea aristocratica, libera da pretese speculative anche di organizzatori». Un anno dopo la Fir viene sciolta d’imperio (si ricostituirà nel ‘32) e fra i motivi c’è senz’altro qualche scivolamento alla norma da parte dei club più ambiziosi. Ambrosiana e Lazio si erano infatti affidate ad allenatori stranieri. A Milano era giunto il guru gallese Tom Potter mentre era trapelato con un certo scandalo che a Roma l’inglese John Thomas ricevesse 2.500 lire al mese, circa 2.200 euro con il potere d’acquisto attuale.

Tom Potter

Due titoli mondiali fanno dimenticare - al pubblico e al regime - ogni polemica sulla moralità del calcio. Il movimento ovale si rassegna intanto al ruolo di sport minore e il dilettantismo diventa condizione ovvia considerata la scarsità di risorse a disposizione.

Il primo rugby mercato

La questione si ripresenta solamente nel dopoguerra. Si sviluppa un timido mercato di atleti, con rimborsi sotto banco non solo simbolici. Una stella come il romano Paolo Rosi, ad esempio, gioca a Napoli voluto dal presidente Gioacchino Lauro e in serie B all’Aquila, dove dopo di lui approda Silvano Tartaglini «a botte di 20mila lire a partita, un secondo stipendio». La situazione esplode però nel novembre 1954 con il caso del contratto fra Treviso e Maci Battaglini. Dopo la stagione da allenatore-giocatore il rodigino vuole ritornare nella sua città ma il presidente Livio Zava gli nega il nullaosta. Battaglini gioca comunque un paio di amichevoli estive con i rossoblù. A quel punto la dirigenza trevisana rende noto il contratto che lo lega al club, con regolare stipendio mensile come operaio dello sponsor Garbuio (ma in fabbrica il rodigino non si è mai visto). Per violazione della regola sul professionismo il 22 novembre 1954 la Fir decide la radiazione di Battaglini e annulla i risultati di Treviso della stagione precedente. Zava, che è anche vicepresidente federale, si dimette da tutte le cariche. Desta malumori anche che la Fir incoraggi la “concorrenza sleale” delle Fiamme Oro, con i suoi atleti reclutati (in senso letterale) in tutta la penisola e impegnati nello sport a tempo pieno. Quattro anni più tardi Zava guiderà il tentativo di innestare in Italia il rugby a XIII, con la secessione di sodalizi veneti e piemontesi che si riassorbirà solo a metà degli anni Sessanta.

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Elvis Lucchese, storico dello sport, è autore di “Pionieri. Le origini del rugby in Italia, 1910-1945”, Piazza Editore.