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Qual è, esattamente il ruolo di un allenatore sportivo che è chiamato a relazionarsi con bambini e ragazzi? Se accettiamo di vedere lo sport come una rappresentazione della vita, sebbene giocata con regole semplificate e in un ambiente protetto, il ruolo dell'allenatore non apparirà molto diverso da quello di un genitore impegnato nella sua naturale opera educativa.

Nell'ambito della sua attività, più ridotta nel tempo e nello spazio, l'allenatore sportivo si trova infatti a compiere gesti molto simili a quelli di un normale genitore. Ad esempio, propone attività che hanno lo scopo di accrescere le abilità dei bambini/ragazzi. Stabilisce delle regole da rispettare e pone limiti ai comportamenti accettabili. Si presenta come un esempio da seguire.

Nel 1996 lo psicologo americano John Gottman ha pubblicato un libro dal titolo “The heart of parenting” (pubblicato in italiano col titolo: “Intelligenza emotiva per un figlio”). Nel libro, Gottman rende noti i risultati di oltre dieci anni di studi in cui si è posto la domanda: qual è il comportamento ottimale di un genitore? Quello lassista? Forse quello autoritario? 

Non si tratta affatto di studi teorici, ma dei risultati dell'osservazione di alcune decine di migliaia di famiglie nel corso del tempo.

In questo breve articolo mi pongo l'obiettivo di allineare questi risultati a quello che, come abbiamo detto sopra, è a tutti gli effetti un genitore part time: l'allenatore sportivo.

Innanzitutto, Gottman dimostra chiaramente che i bambini che raggiungono i migliori risultati quantitativi (voti scolastici...) e qualitativi (capacità di crearsi amicizie, ma anche resistenza alle malattie...) sono quelli che sanno riconoscere, accettare e gestire le proprie emozioni.

Questa caratteristica del bambino e del ragazzo non è solo una caratteristica innata, ma può essere migliorata in quel processo che Gottman chiama “allenamento emotivo”.

Quali sono le fasi di questo “allenamento”, che può essere applicato senza dubbi anche in ambito sportivo? 

La prima fase riguarda proprio l'allenatore, che deve essere consapevole delle emozioni del bambino e del ragazzo. Possono essere molto diverse da quelle di un adulto e per poter creare un'occasione di insegnamento è necessario riconoscerle. A questo fine non serve una laurea in psicologia, ma solo capacità di ascolto e di immedesimazione.

La fase successiva è quella di convalidare quelle emozioni. Se il bambino è spaventato da un certo compito, dirgli “Non avere paura” è un errore. Non sono mai le emozioni ad essere sbagliate, ma eventualmente la nostra reazione a quelle emozioni.

Altra fase è quella di dare un nome alle emozioni. Eliminare dal vocabolario parole come “paura”, “ansia”, “stress” non aiuta il ragazzo (o lo sportivo) a migliorare la sua prestazione, bensì crea la falsa convinzione che la razionalità sia l'unica chiave per migliorarsi.

Il compito finale dell'allenatore emotivo è infine quello di porre dei limiti alle reazioni dell'allievo, perché le reazioni inopportune devono sempre e comunque essere frenate: la  comprensione, da sola, non è sufficiente a generare le attitudini ottimali.

Gottman ci dimostra che con questo processo i genitori possono crescere figli emotivamente sani e adatti ad affrontare le difficoltà del mondo là fuori. 

In tutto questo processo, credo che nel suo ambito l'allenatore di rugby parta avvantaggiato, perché si muove in un ambiente che vive già di alcuni valori vivi, condivisi. Sperimentare questo metodo potrebbe portare vantaggi a medio lungo termine e consolidare ancor di più quella cultura dello sport che parla anche alla vita.