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Articolo pubblicato su Allrugby numero 144

Dodici mesi dopo l’ingresso di un fondo d’investimento (CVC) nella Premiership (circa 235 milioni di €, nel dicembre 2018, per una quota pari al 27% del torneo) il rugby inglese si interroga sul futuro del professionismo ovale.

Nel 2019, CVC dopo essere diventato partner della Gallagher Premiership, è entrato, più o meno con le stesse modalità, anche nell’azionariato del PRO14 e sta per completare la stessa operazione nel Sei Nazioni.

L’obiettivo, in ognuno di questi casi, è semplice: allargare il giro d’affari di ciascuna delle competizioni, accrescerne il valore commerciale, incassare i dividendi generati.
Si chiama business, non c’è altra parola. Che poi il business vada mantenuto entro le regole, questo è un fatto che non ammette discussione. Il punto critico è stabilire chi, e fino a quale punto, è autorizzato a fare affari e dove risiede il limite che separa il business dallo sport e la competizione leale dagli imbrogli.

Nigel Wray, gran patron dei Saracens, oltre a essere un uomo ricco, è sicuramente un imprenditore spregiudicato. Ha fatto della sua squadra una corazzata praticamente senza rivali, ma per arrivare ai traguardi che si era prefisso ha finito per contravvenire alle regole. E ora paga.

In pratica, per non dover sottostare ai limiti di un salary cap che non permette alle squadre della Premiership di spendere in stipendi più 8,2 milioni a stagione, Wray nelle scorse stagioni ha associato alcuni dei suoi giocatori a una serie di investimenti privati i cui proventi hanno finito per rappresentare un surplus di guadagni individuali nascosti alle carte ufficiali.

La cosa è venuta alla luce la scorsa primavera e il 5 novembre ha portato alla decisione, da parte di Premier Rugby, di penalizzare i Saracens di 35 punti, nella stagione in corso, comminando loro anche una multa di circa 6 milioni.

Il club dichiarandosi di fatto colpevole ha ritenuto di non dover presentare appello. “Forse per ragioni nobili abbiamo fatto qualche errore”, il commento a caldo di Nigel Wray che il 2 gennaio ha presentato le dimissioni da presidente del club.

Ora però, su pressione delle altre squadre iscritte alla Premiership, sui Saracens è arrivato un altro colpo di scure. La richiesta perentoria è stata: retrocessione automatica al termine di questo campionato oppure rinuncia ai titoli conquistati nelle ultime tre stagioni (quelle nel corso delle quali sono state disattese le regole) e messa a disposizione di tutti i conti della società per un’indagine puntuale e accurata.

Il board del club ha scelto la prima opzione. La retrocessione impedisce ai Saracens di giocare la Champions Cup, di cui detengono il titolo, per le prossime due stagioni e di fatto obbligherebbe il club a cedere la maggior parte dei giocatori, anche se dal punto di vista formale nulla vieta la convocazione in Nazionale di atleti che militano nelle serie inferiori.

 

Sport e business

Il salary cap è un sistema inventato nelle leghe americane (basket, hockey, baseball e football) il cui orientamento al business è stato totale fin dal giorno della loro istituzione.

Gli Usa hanno sempre distinto lo sport universitario dal professionismo votato al denaro e, per mantenere aperte le competizioni, evitando che le squadre più forti si assicurino i maggiori introiti e con essi mettano sotto contratto i giocatori migliori, hanno inventato il salary cap (nel baseball si chiama “luxury tax”), il cui scopo è spalmare gli atleti in modo equilibrato tra tutte le partecipanti ai vari tornei. Al salary cap hanno poi aggiunto i “draft”, altro sistema studiato per riequilibrare le forze e impedire che a vincere siano sempre le stesse formazioni. “Business is business”, nessuno vuole pagare per uno spettacolo che si sa già come andrà a finire.

A occhio e croce, guardando i tetti salariali delle competizioni Usa, il sistema funziona. Al loro confronto il rugby internazionale sembra una tombola di fine anno in cui si gioca con i fagioli.

Le leghe americane, tuttavia, sono un sistema chiuso che non solo non prevede promozioni e retrocessioni, ma nemmeno il confronto con avversarie straniere. Le squadre sono tutte imprese commerciali che giocano e risiedono dove più conviene. Niente tifosi organizzati né appartenenza di territorio.

Gli sport europei sono figli di tutt’altra tradizione. Prendiamo la Champions Cup: perché mai i Saracens dovrebbero rispettare un monte salari inferiore di più di tre milioni rispetto alle squadre francesi?

E perché mai le squadre inglesi possono arrivare a spendere oltre 8 milioni di € se le loro avversarie scoz- zesi arrivano a malapena a 5 e le gallesi a 6?
Perché in Europa valgono regole diverse rispetto a quelle introdotte nelle singole nazioni?

Per non parlare del calcio che, a parte lo strumento del fair play finanziario, di recente introduzione, non si è mai preoccupato delle differenze di budget tra le squadre iscritte alle varie competizioni. Nessuno si scandalizza del fatto che la scorsa stagione Ronaldo, da solo, percepiva, 31 milioni netti, più di tutta la rosa del Sassuolo messa insieme, o che la media degli stipendi al Barcellona è di 11 milioni a testa (lordi, a stagione) mentre l’Atletico Madrid supera di poco i 6.

È il football bellezze! Quello che una volta, l’allora pre- sidente del CONI definì una competizione fra presidenti ricchi e scemi.
Che lo fossero o meno non importa, è vero in realtà che i successi nel pallone rotondo sono stati spesso merito del portafoglio di chi aveva da spendere, tuttavia nes- suno ha mai messo in discussione i meriti dei Sivori, dei Charles, dei Puskas, dei Di Stefano, dei Platini, dei Gento, dei Gullit, dei Van Basten, dei Rijkaard. Al di là degli Agnelli, dei Moratti, dei Bernabeu e dei Berlusconi. L’impressione è che il rugby si sforzi di salvaguardare un passato nei confronti del quale ha fatto abiura soltanto da un quarto di secolo (1995), illudendosi ora di difenderne i valori (quali?) una volta che i buoi sono scappati dalle stalle.
Nigel Wray probabilmente non è peggiore di tutti quelli che come lui negli ultimi anni hanno investito nel rugby, solo è stato un po’ meno accorto.

A novembre il Montpellier è stato multato dalla FFR di 400 mila € per aver superato i limiti del salary cap francese. La multa è poi stata poi cancellata dalla commis- sione d’appello e trasformata dalla LNR (la lega delle società professioniste) in una sanzione di 100 mila € per “mancanza di trasparenza nei conti”.

Secondo l’accusa, nella stagione 2017/2018, il Montpel- lier aveva sforato di circa 430 mila € il tetto di 11,3 milioni stabilito dalla lega.
Mohed Altrad, presidente del club, miliardario attivo nel settore delle costruzioni, ha detto a proposito della questione di essere vittima di un “sistema stalinista in cui la lega dei club pretende di stabilire il valore degli stipendi dei giocatori”.

Detto che non sempre gli aggettivi sono maneggiati, da chi li usa, con cura, forse il rugby dovrebbe cominciare a domandarsi seriamente dov’è il suo futuro.
In venticinque anni è passato dal punire chi percepiva ridicoli rimborsi spese alle follie di un professionismo senza ritorno. Ora si guarda allo specchio e non si piace. E i Saracens pagano per tutti. Del resto furono loro nel 1876 a scegliere il proprio nome individuando i Crociati come principali avversari. Chi è causa del suo mal pianga sé stesso.

 

 

Titoli conquistati dai Saracens nelle recenti stagioni:
Premiership: 2011, 2015, 2016, 2018, 2019
Champions Cup: 2016, 2017, 2019

 

Di Gianluca Barca

 

 

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