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In molti e a vario titolo si sono posti, si stanno per porre o lo faranno a breve, la seguente domanda: ma Conor O’Shea è davvero l’uomo giusto per portare il nostro rugby a quei livelli che, al momento, soprattutto dopo l’ultimo Sei Nazioni, sembrano, in parte o del tutto, preclusi? In altre parole: Conor O’Shea è la persona giusta per l’Italia del rugby che vuole (provare a) tornare fra le prime 10 al mondo, alzare il grado di efficienza del  gioco di questa Nazionale, formare come si deve i migliori fra i nostri giovani, raccogliere qualcosa di più dalle nostre due franchigie celtiche?

Io un’idea me la sono fatta. E dico di no. Non è la persona adatta a caricarsi sulle spalle tutti i nostri problemi e, con essi, salire in cima alla montagna del rango internazionale, della credibilità, del successo e, perché no, della popolarità.

Non lo è, a mio avviso, perché alcuni aspetti del suo carattere e del suo modo di intendere concetti come “lavoro” e produttività”, sono anni luce lontani dall’accezione che di quei termini abbiamo dalle nostre parti. Conor O’Shea si è formato secondo i canoni di una cultura tipica di chi, dovendo indossare, meglio: avendo deciso di indossare un certo vestito, una volta verificato che le misure dello stesso non lo consentono perché di dimensioni ridotte rispetto al soggetto che lo dovrebbe vestire, molto semplicemente, decide di… dimagrire. Di perdere peso, di adattare se stesso, in questo caso il proprio corpo e le sue dimensioni di ingombro, al capo che si riteneva e si ritiene quello più adatto alla circostanza.

Noi (tutti noi, ammettiamolo), nella situazione data avremmo percorso una delle due seguenti strade: ci saremo rivolti a un sarto/a per le modifiche del caso e lo avremmo reso indossabile, allargandolo; avremmo riposto in armadio, se non gettato in un cassonetto Caritas il capo risultato non adatto a noi, e avremmo provveduto con un altro, verificandone la congruità delle misure.

Non a caso il rugby lo hanno inventato loro (non gli irlandesi, lo so, gli inglesi, ma la materia prima, odi tribali e differenze di accento a parte, è la stessa). E il rugby è quel gioco in cui devi portare la palla che hai in mano in un punto situato dietro a un muro che gli avversari hanno costruito per impedirti di farlo. Un muro che dispone di porte di norma chiuse, raramente aperte. In alcuni casi inesistenti. Ragion per cui, in mancanza di porte, non resta che scegliere fra l’opzione 1: cambio gioco, vado a casa, rinuncio; e l’opzione 2: il muro senza porte lo butto giù a testate. Le porte le faccio io.

Fuor di metafora sartoriale, occorre avere ben chiaro, quando ci si appresta a una qualsiasi intrapresa, il rapporto di priorità fra le varie componenti della stessa. E fin da subito operare una semplice e banale operazione: decidere quali sono le parti del nostro progetto che consideriamo negoziabili e quali quelle che non lo sono e mai, costi quel che costi, lo diventeranno.

A questo punto, ma solo a questo punto, entra in campo la variabile della “lunghezza della catena di comando”. Problema: la Nazionale italiana dispone di alcuni discreti lanciatori di rimesse laterali. Ma nessuno di loro garantisce la continuità del proprio rendimento per l’intero arco della partita. Le percentuali di successo cioè variano al mutare delle condizioni ambientali. Non è una questione di procedura motoria, di modello esecutivo. Il lanciatore X lancia perfettamente quando la sua squadra è tranquillamente in testa o pesantemente attardata nel punteggio. Sbaglia, con preoccupante ripetitività, tutti i lanci che deve eseguire  in momenti della gara che potrebbero decidere l’esito finale della stessa. Della serie: martedì, a fine allenamento, birra in palio con gli altri due tallonatori, colpisco il palo della porta 5 volte su 5 da 15 metri. La domenica, fuori casa, a 5’ dalla fine, sotto di 4, dentro i 22 avversari, con il pubblico che urla e sputa addosso alla rete… lancio storto, o corto, o troppo lungo, o nella zona di un compagno che non era quello incaricato di salire in cielo.

Bene, mister O’Shea rileva il problema, conosce un allenatore specializzato in “estraniamento ambientale” che lavora con successo nel mondo del tennis professionistico. Ritiene che la sua sia la professionalità di cui ha bisogno per aiutare i lanciatori della Nazionale. In pratica: ha rilevato, identificato il problema e individuato un procedimento di soluzione.

Siccome appartiene a quelli che “per entrare nel vestito penserebbero di dimagrire”, fosse per lui, prenderebbe il telefono, concorderebbe un compenso, butterebbe giù un piano di interventi e si dedicherebbe ad altro, dal momento che i problemi non mancano.

Quella appena descritta dicesi: catena di comando corta. Quella lunga prevede che O’Shea informi del problema rilevato la persona che lo precede nella scala gerarchica federale, il quale si rivolgerà, al suo diretto superiore, che informerà il presidente, il quale dovrà far ratificare quanto eventualmente deciso dall’organo politico di governo. E nel farlo, si badi bene, dovrà pesare e soppesare gli effetti previsti o prevedibili di eventuali scelte operate. Effetti di natura non certo strettamente tecnica, ma attinenti al più composito panorama del “consenso allargato”. Che non scatta a comando ogni quattro anni in corrispondenza dell’evento elettivo, persiste e si ripete giorno per giorno anche lontano dalla urne.

Noi siamo il paese in cui la definizione “pieni poteri” evoca (solo ed esclusivamente) fantasmi di dittature del passato e in cui un totale che afferma in pubblico che per trovare lavoro valgono più le conoscenze personali (il calcetto) delle competenze acquisite in anni di studio o di pratica, arriva a diventare ministro del lavoro di un governo “de sinistra”.

Perché stupirci, quindi, se anche i migliori, sono soliti essere accolti come salvatori della patria e salutati come dei nessuno capitati in casa per sbaglio?

Concludendo: Conor O’Shea possiede le conoscenze e le competenze adatte a migliorare la situazione del rugby di vertice nel nostro paese. Ha alle spalle esperienze assai significative che lo situano ai piani alti di quanti, per professione, si occupano di rugby internazionale. Ma la sua formazione e il modo in cui aggredisce i problemi per portarli a soluzione, non sono adatti all’ambiente in cui è stato chiamato a operare.