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Per giocare (bene) a rugby aiuta molto essere grandi, grossi, veloci e cattivi. Possibilmente in contemporanea. Il talento, l’organizzazione collettiva, la pulizia del gesto e il saper camminare sulle acque sono cose che aiutano. Ma che da sole poco risolvono. L’Italia resiliente (COS dixit) come le genti d’Abruzzo dopo il terremoto e con un grande avvenire davanti all’orizzonte, al momento in formato “una meta segnata in 4 ore di partita ufficiale”, ha subito la più classica delle lezioni al cospetto di un Sud Africa in versione “efficacity al potere”, capace (o disposto?) a entrare per sole tre volte nei nostri 22 nei primi 40’ e di segnare tre mete. In grado, nel secondo tempo, di contenere senza falli e applicando il primo comandamento del gioco difensivo (chiamasi: placcaggio) con la dovuta perizia, le lunghe sequenza azzurre condite di concatenazioni e cambi di fronte che nulla hanno portato all’incasso del match. Prima di decidere, a ridosso della sirena, di affacciarsi ancora una volta dalle parti della meta italiana e mettere il sigillo n.5 su una partita ampiamente dominata nonostante percentuali di possessi e di occupazione non molto distanti fra loro.

Ultime pagelle del 2017 nel segno di alcune certezze che possediamo purtroppo da tempo. La più importante delle quali dice che fra noi e l’alto livello la distanza è molto marcata. Almeno per adesso.

 

Jayden Hayward – alla terza partita da titolare conferma i dubbi (eufemismo) circa la sua produttività sui palloni alti sotto pressione. Con Esposito (34’) confeziona il pasticcio che ci costa la meta del 21-6 e al 64’ sparisce al momento dell’atterraggio di un pedatone assassino dei verdi che, sarà un caso, riconquistano al volo l’ovale e per poco non segnano ancora. Ha il senso della posizione e, pur non essendo un fulmine di guerra quando c’è da placcare, qualcosa che assomigli al profilo di un estremo adatto all’alto livello internazionale ce l’ha. Forse in una squadra più dotata di qualità farebbe miglior figura. Per la maglia n.15 è il meglio di cui al momento disponiamo, nell’attesa che si materializzi il fantasma di Padovani (in campo con Tolone) o che si decida di rischiare Minozzi per qualcosa più di uno scampolo di partita. A Catania aveva fatto vedere cose (abbastanza) buone. Ma al crescere della qualità dell’avversario le sue quotazioni sono scese in proporzione. Preoccupante. Voto: 5menomeno

Angelo Esposito – ha fama di essere attaccante di razza. Deve il suo impiego a un (supposto) bagaglio di qualità offensive da cui l’intera squadra dovrebbe lucrare efficacia riflessa. Ma a parte un paio di accelerazioni con l’uomo già addosso e alcuni tentativi un po’ naif di penetrare la linea, fornisce una prestazione incolore e scialba. Anche i suoi (lodevoli) tentativi di alimentare l’azione andando alla ricerca di spazi vitali nella zona del fronte non sortiscono effetti degni di nota. Al 59’ assaggia la ruvidità di Pollard che, difendendo su di lui in prima fase, gli svelle il pallone dalle mani, semplicemente. È vero che giocare ala in una squadra che poco si impone nella zona di collisione e che non dispone di abilità esecutive degne di questo nome negli spazi allargati, non è impresa per uomini normali. Ma detto della pochezza generale, resta il fatto che da lui non arriva nulla che assomigli a un sussulto di dignità capace di farlo uscire da un preoccupante anonimato tecnico. Minestrina in brodo. Voto: 4

Tommaso Boni – arriva morbido su Low in occasione della prima meta, ma si segnala per alcuni interventi di sostanza e carattere. Come quando (39’) porta pressione davanti ai pali dei verde oro e cattura l’estremo palla in mano nell’azione che ci porterà in dote un calcio piazzabile. O come al 62’ quando (bravo McKinley) imbrocca un bel cambio di angolo a rientrare nel corso di una delle sequenza d’attacco più lunghe ed elaborate del match. Ogni volta che è chiamato all’intervento lo fa con ardore e determinazione. Da lui non arrivano né acuti né virtuosismi, ma un discreto volume di cose semplici eseguite molto bene. La linearità è il suo tratto distintivo. Prezioso e, in fin dei conti, utile assai. Come certi Casio da pochi euro che l’ora esatta, anche se orfani della magia di una griffe patinata e saccente, la segnano sempre e comunque. Concreto. Voto: 6

Tommaso Castello – la sua progressione al 56’ mette tutto l’Euganeo in piedi. La fama di centro dedito a scontri frontali e costantemente a proprio agio nelle battaglie a sportellate se l’è costruita con il sudore della fronte e con un buon numero di traumi subiti e inflitti. Le mani buone sono un’altra cosa, ma uno capace di mettere almeno un po’ di squilibrio nel fronte che difende e di varcare palla in mano la maledetta linea del vantaggio, era quello che da tempo cercavamo e che finalmente abbiamo trovato. Al rientro di Campagnaro e Morisi il suo posto potrebbe tornare a essere la panchina. Forse. Voto: 6 ½

Mattia Bellini – darsi da fare su ogni pallone che gli arriva fra le mani fa parte del suo dna. Quando parte da fermo non è un fulmine di guerra, ma con un minimo di abbrivio qualcosa riesce a ottenere. Solo che negli 80’ di Padova palloni invitanti e potenzialmente… non ne ha visti passare. Il gioco aereo non è il suo forte (neanche quello al piede, attività da cui giudiziosamente si astiene). Verso la fine del primo tempo si fa uccellare da una pedata a scendere su cui si avventa come un falco il furetto Leyds che se ne impossessa sotto i suoi occhi. Al 58’ (in regime di vantaggio) perde un pallone a contatto che meritava altro e miglior destino. Errore in parte compensato dalla buona progressione esibita al 16’. Pochino per riconoscergli una sufficienza in termini assoluti che, comunque, ha in qualche maniera, ma solo a tratti, lambito. Voto: 5

Carlo Canna – il rigore a porta vuota sbagliato al 40’ dice di un’inadeguatezza in un comparto (quello dei calci piazzati) in cui aveva dimostrato di saperci fare alla grande. Nel primo quarto non piazza da posizione agevole per cercare la rimessa a 5 e la meta con non arriva. Poite lo becca (27’) in fallo di posizione da mischia (una rarità) che dice di una scarsa concentrazione sulla partita. A sua parziale ma dovuta scusante, la pochezza del pack dietro al quale è chiamato a operare. Forse al posto di Pollard (Man of the Test) avrebbe fatto miglior figura, dal momento che in attacco non è esattamente uno sprovveduto. Ma trattasi di ipotesi assolutamente irreale. Nella colletta per pagare il taxi è quello che mette i pochi spiccioli di cui dispone. Che non sempre bastano a evitare di tornare a casa a piedi. Voto: 5

Marcello Violi – gioca la terza da titolare, segno che la maglia n.9 del prossimo Sei Nazioni è sua. Visto lo stato di forma dei suoi competitors la scelta appare (addì 25 nov. 2017) del tutto condivisibile e persino scontata. Con il SA distribuisce con diligenza ma non trova spazi e tempi per qualcosa che aggiunga peso specifico a manovre offensive che pungenti non sono mai. Il piede si conferma centrato e ben calibrato, il passaggio sx/dx un po’ macchinoso, la visione di gioco è “non pervenuta”, dal momento che rispetta alla lettera un piano di gioco che, palla in mano nostra e non per colpa sua, è molte cose tranne che efficace e produttivo. Voto: 6

Sergio Parisse – parla molto, con arbitri, giudici di linea, compagni di squadra e avversari. Si vede da subito che ha voglia di fare fatica e di recuperare il credito in (larga) parte esaurito a Catania e a Firenze. Ci riesce, almeno un poco. Bello il frontale in apertura sulla linea di metà campo, e discreti altri suoi impatti cercati in fase di attacco. Non tutti vincenti, però, e qualcuno neanche pareggiato. Parte dalla base della mischia (32’) in direzione dell’apertura verde oro, viene placcato, cade e perde palla; al 48’ fa la guerra con Etzebeth che lo fa pedalare indietro e lo costringe a mollare l’ovale, al 67’ carica nello stretto e concede quasi subito il bis, ma stecca la replica e perde un altro pallone. In conferenza stampa si impicca con le proprie mani portandosi la corda da casa, teorizzando che lui non deve spiegare niente a nessuno, dal momento che poco gli importa se quello che la squadra sta facendo è compreso o no (dalla stampa e dai lettori. Apperò!). All’appunto che, sul tema, gli arriva dalla platea dei cronisti, risponde stringendo ancor di più il nodo, concludendo che l’Italia ha perso ma è una squadra molto forte, in cui tutti lottano e in cui nessuno ha intenzione di mollare o di tirarsi indietro. Perché, prima, in Nazionale chi ci giocava, solo vigliacchi e paraculi? Voto: 5

Abraham Steyn – finché nel serbatoio gli rimane un po’ di benzina lotta e si da da fare. Non sempre con i risultati sperati, anche perché ha davanti avversari che nella guerra dei papponi (intesi come colpi dati e ricevuti, niente a che vedere con i protettori di signorine) sanno, come per incanto, dare il meglio di sé. Anche lui al terzo cartellino timbrato in due settimane. Ammirevole ma stremato. Voto: 5 ½

Giovanni Licata – meglio un uovo oggi o una gallina domani? Questione di opinioni e di visione del mondo. Secondo Conor O’Shea ha disputato una partita molto buona, ai confini dell’eccellenza. Segno che le 5 palle perse in avanti o recuperate dagli avversari a terra poco significano sul piano della valutazione individuale. Il ragazzo si farà, sicuramente si farà, giurano ct e capitano. Perché non credere loro? In fondo: non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore. Una cosa è certa, il ragazzo avanza, sempre e comunque. Non solo ci prova, ci riesce pure. Che sia però ancora (molto)  “morbido” lo si arguisce plasticamente al minuto 33, quando ingaggia una prova di forza con tale Vermeulen, uno che di mestiere fa il “n.8 rognoso come pochi” il quale, dopo un paio di secondi di balletto appena accennato, passa alle maniera forti e risolve il tutto a suo favore. All’età in cui un ragazzo italiano medio si fa ancora servire la colazione a letto dalla mamma e preparare la biancheria pulita e striata sul comò, lui è partito per la guerra. Non ne è tornato vincitore, ma è tornato, pronto a ripartire per la prossima campagna. E la cosa merita di essere sottolineata. Come il fatto che gli 80’ in programma li trascorre tutti sulla linea del fuoco. Voto: 6 +

Dean Budd - Marco Fuser – bene in rimessa laterale, il neozelandese vola in fuori gioco per arrestare il drive sudafricano al 44’. Sostanza e voglia di battersi sui punti di collisione: tanta roba. Capacità di incidere sugli equilibri della gara: purtroppo no. Lo ha riconosciuto Conor O’Shea in sala stampa, ricordando ai meno giovani presenti le vecchie uscite sull’argomento dell’attuale presidente onorario della Fir. “Ma avete visto quanto grandi e grossi sono?”. Non reggono il confronto fisico con la premiata ditta De Jager - Etzebeth. Ma davanti al nemico non fuggono né cercano di darsi malati. Nel loro ruolo, il meglio che abbiamo in casa. Voto: 6menomeno

Simone Ferrari – Andrea Lovotti – in avvio di gara qualche incertezza nell’assetto, poi risolta. Quando esce “The Beast” Mtawarira sostituito dal fulvo Kitshoff i problemi tornano a farsi evidenti. In un modo o nell’altro tengono comunque botta, confermandosi la miglior coppia di piloni attualmente a disposizione. Voto: 6

Luca Bigi – anche un lancio storto! In una prestazione comunque dignitosa e prossima alla sufficienza. Voto: 6meno.
Leo Ghiraldini (dal 48’) si segnala per un paio di avanzamenti in zona rossa che avrebbero meritato sorte migliore. Voto: 6 anche a lui, che il Sei Nazioni dovrebbe farlo da titolare.

 

Arbitro Poite – direzione lineare e senza criticità interpretative. Concede molte e ampie pause nel corso della gara, troppe? Al 74’ interpella il Tmo per vedere se la meta del SA sia da annullare. Avrebbe fatto meglio se avesse evitato di farlo, perché il fallo di De Jager (in punta di diritto) c’era e così l’ha visto tutto lo stadio, ma nulla che abbia illegalmente generato/favorito  l’azione conclusa oltre la linea bianca da Monstert. Preciso e puntale nell’amministrare i vantaggi, oculato nella valutazione del fuori gioco in gioco aperto. Difficile pretendere di più. Spocchia, che a tratti emerge negli intermezzi colloquiali con colleghi giudici e atleti a parte, prova molto positiva. Voto: 9

Stadio Euganeo – Quasi pieno in ogni ordine di posti. Delle tre date quella veneta è stata la migliore quanto a risposta di pubblico e di botteghino. Dato ampiamente previsto e scontato, vista la posizione geografica della città del Santo senza nome nel cuore del territorio più ovale della penisola. Numeri a parte, pubblico discretamente distaccato dagli eventi, e poco incline a sostenere l’impari duello degli azzurri contro i dominanti sudafricani. Essendo la percentuale dei praticanti sugli spalti ampiamente maggioritaria, comportamento assolutamente in linea con gli eventi sul campo. Ma nessuno se n’è andato prima del fischio di chiusura, nonostante la pioggia. Voto: 7

Inni – stavolta niente bande militari per gli inni delle due nazioni in campo. Bellissima, tecnicamente molto pregevole ed emotivamente molto coinvolgente la versione corale (oltre 100 elementi) di quello sudafricano, con la sottolineatura delle braccia levate al cielo degli ultimi versi. Di spessore anche quello italiano cantato dal soprano Stefania Miotto. Peccato (ma la bella e brava interprete non ha colpe) che il solito “ponporompoporompoponporompopompo,porompoponporompoporompo…” di ordinanza, sceso dagli spalti al cambio di strofa, abbia ricordato a tutti che, musicalmente parlando, il nostro inno, da poco divenuto ufficiale per decisione del parlamento, altro non è (testo a parte) che un’allegra e scapestrata marcetta. Voto: 10. A Ursula Feiffer: 10 e lode.

Paul Griffen – intendiamoci: va bene tutto! Ma quando, nell’intervallo fra il primo e il secondo tempo (6-21), interpellato da Daniele Piervincenzi sull’andamento della sfida, se ne esce dicendo che “… il piano di gioco degli azzurri sta funzionando”, delle due l’una: non ha visto la partita o ci prende tutti per il culo. Propendiamo per la seconda ipotesi. Premiandone l’originalità e la capacità di sdrammatizzare. Voto: 8

 

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Foto Alfio Guarise