"Dio come siamo bravi e diversi da tutti!" la stanca liturgia del Rugby

Alle nostre riflessioni esposte in Dov'è finita la tanto sbandierata superiorità morale del rugby? ha provato a rispondere Giorgio Sbrocco
Per anni ci siamo cullati nell'illusione che bastasse mettersi in bocca un paradenti, indossare un caschetto, esibire facce truci e far sgorgare una lacrima al verso finale dell'inno di Mameli, per potersi dire migliori. Era fuffa, qualcuno ne aveva completa coscienza ma accettava di recitare una parte. Altri non capivano dove fosse la fregatura e si immolavano sull'altare del gioco "duro inventato per i duri e che solo i duri possono giocare", salvo mescolare confusamente grossolane pulsioni elitarie con la convinzione di essere "altro" rispetto ai tanti colleghi che, la domenica, in mutande e maglietta, ma con il pallone di forma non ovale. Poi arrivarono gli inciampi, il primo giocatore ad aver disputato quattro mondiali (Hall of Fame), arrestato per aver massacrato la compagna incinta, il francese che spara alla moglie, fino al siciliano in versione farmacia ambulante.
Niente che non si potesse prevedere. Nulla che autorizzi stupori o che legittimi prese di distanza a posteriori. Siamo, in quanto uomini, (anche) "tutta quella brutta roba". Indipendentemente dallo sport che pratichiamo o che abbiamo praticato in gioventù. Che ci ha dato sicuramente tanto e molto oltre le birre e la carne ai ferri del dopo gara. Ma che poco o punto ci ha cambiati. Perché fatta la tara da certe stanche liturgie del "Dio come siamo bravi e diversi da tutti!", resta il fatto che ognuno porta dentro lo spogliatoio o sul campo di gioco il tanto o il poco di buono che ha dentro. E non sarà una palla ovale o tonda a marcare il confine fra l'atleta leale e generoso e quello truffaldino e vigliacco.
E lo stesso, ovviamente, vale per quelli che il rugby lo vanno solo a vedere.
Giorgio Sbrocco per Rugbymeet