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E' appena finito un 6 Nazioni doloroso per la nazionale maschile maggiore di rugby. Inutile citare risultati e statistiche, sarebbe sufficiente contare le volte che sono stato tentato di spegnere il televisore. Quello che possiamo fare, come sempre nei momenti di difficoltà, è accettare il risultato del campo e le nostre comuni frustrazioni (rifiutarli non serve a niente), cercare di imparare e cercare di capire.

O'Shea ha schierato di fatto sempre lo stesso quindici, indipendentemente dai risultati e indipendentemente dalle prestazioni dei giocatori precedenti al 6 Nazioni. Quest'ultimo punto è stato probabilmente l'elemento più sorprendente. L'Italia ha giocato sempre con due seconde linee atipiche (Budd e Zanni), con un'apertura che non gioca titolare da tempo nel suo club e che non ha mai giocato nei test di novembre (Tommy Allan a Treviso), privandosi di quei giocatori di grande esperienza che hanno dato non poco alla nazionale negli anni scorsi (Sgarbi, Rizzo, Venditti, etc etc...).

Per contro, la squadra andata in campo è stata forse la più giovane di sempre. Inevitabile soffrirne alcune conseguenze in termini di pressione, confidenza, organizzazione di gioco.

Ora, le nostre riflessioni possono prendere due strade.

La prima è considerare O'Shea uno sprovveduto. Questa scelta la lascio a qualche lettore con poca fantasia.

La seconda è giudicare O'Shea secondo la sua storia, quella di un tecnico preparato a trecentosessanta gradi, dall'aspetto tecnico a quello mentale. Cosa ci dicono allora le scelte di O'Shea? Che l'Italia deve affrontare due sfide, per poter essere davvero competitiva.

Prima sfida dimenticare completamente il peso del risultato. Dimenticare la vittoria... per poterla raggiungere solo come riflesso condizionato, come conseguenza indiretta del concentrarsi solo sul “qui e ora” della propria prestazione.

La seconda sfida è costruire una squadra che sia totalmente indipendente dalle individualità. Facendo giocare sempre gli stessi quindici, O'Shea ci vuol dire: il singolo è ininfluente. Anzi, più il singolo può essere importante per la squadra (leggasi Canna, ad esempio) più il rischio è che la squadra si concentri sulle sue qualità, evitando tutti gli sforzi necessari per crearsi una sua precisa e forte identità.

Queste due sfide sono i tratti di un'utopia e definiscono una dura traversata del deserto per la nostra nazionale maggiore. Ma a volte un'utopia è tutto quello che serve per sfuggire alle paure delle nostre vite quotidiane, quelle che ci impediscono di diventare davvero noi stessi.

 

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Foto Alfio Guarise