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Forse non tutti sanno che il grande basket professionistico americano (l’attuale Nba) nacque per iniziativa di alcuni titolari di sale da ballo che, conti alla mano, avevano la giornata del lunedì da riempire. Di gente e di dollari. Nessuno va a ballare il lunedì sera? Vediamo di farli uscire di casa per un’altra ragione, con una diversa destinazione. Fu il pensiero dei proprietari. Proviamo col basket, azzardò uno di essi. A quei tempi, da quelle parti, a basket si giocava tanto e dappertutto, ma solo nel circuito scolastico e in quello universitario. Convinciamo qualche laureato che si può vivere anche di pallacanestro e il gioco è fatto. Osservò lo stratega di turno dell’Anonima Balere. E così è stato.

Perché questa strana intro? Perché circola con una certa insistenza l’ipotesi che in un futuro molto prossimo alcune franchigie ovali americane del Nord entreranno a far parte della competizione che attualmente chiamiamo Pro 14. E a una tale notizia qualcuno si scandalizza, arrivando a scoprire che “allora è vero che nello sport di alto livello contano solo i quattrini!”. Affermazione non lontana dalla realtà ma solo parzialmente completa. E che adeguatamente revisionata suona come segue: “Nello sport di alto livello contano solo i quattrini quando ci sono”. Perché quando non ci sono è l’alto livello che viene a mancare. Tutto qua. Nessuno può dire, oggi, quando e se avremo in calendario del futuro “Pro qualcosa”: Scarlets-Sacramento, Benetton-San Francisco o Zebre-Minnesota. Per la semplice ragione che, al momento e in maniera ufficiale, nessuno si è fatto avanti con la necessaria dotazione di dollari fruscianti da dispensare. Lo hanno fatto pochi mesi fa i sudafricani con i Rand e le porte (comprese quelle celtiche a forma di H) si sono aperte, e giustamente, alle loro ben strutturate e remunerative esigenze. Facciamocene una ragione: quando qualcuno della Gazprom, fatti due conti, deciderà che mandare in giro per l’Europa una squadra con il nome del monopolista russo dell’energia promette a tutti gli effetti di essere un affare, avremo i siberiani o i moscoviti a giocarsi i play off a Pontypridd, a Edimburgo o a Galway. Qualcuno metterà sopra il tavolo comune soldi, altri diritti televisivi (finalmente) venduti bene, altri ancora sponsorizzazioni di quelle robuste e irrinunciabili. Il tutto in nome e per conto di un’attività, lo sport in questo caso, finalmente capace di produrre utili. Nell’attesa che in Cina all’illuminato di turno venga in mente che oltre al pallone rotondo del calcio e del basket, ne esiste anche uno di stranamente ovale. Alla domanda: ma quale prezzo dovremo pagare noi appassionati delle bislunga per poter godere di uno spettacolo all’altezza delle nostre (enormi) aspettative/esigenze? Sarebbe bello rispondere declamando i comandamenti del nostro credo ovale, fatto di tradizione, appartenenza, identità condivisa e (soprattutto!) valori, meglio se etici. Liberi di farlo, ma pronti a trovarci davanti a una realtà che sembrerà non appartenerci, fatta di consigli di amministrazione e di piani industriali, di quote di mercato e di marketing diffuso. La finale di quella che fu la Lega celtica allo SportsHub di Singapore (quello con la cupola alta 300 metri e le piste ciclabili all’interno) è tutto tranne che un’ipotesi priva di fondamento, irrealizzabile. Sarò semplicemente il prezzo che anche il “nostro” sport dovrà pagare alle leggi del mercato mondiale e globalizzato. L’alternativa c’è. Ed è restare piccoli e quasi invisibili. Ipotesi forse affascinante, come lo è il concetto stesso di “sport di nicchia”, ma del tutto priva di quel minimo di respiro e di prospettiva che si chiama domani. Non sarà bellissimo, e forse neanche bellino. A qualcuno potrà anche fare rispettosamente schifo. Ma il mondo, almeno quello in cui viviamo, funziona così. A decidere, e non da oggi, sono quelli che delle sale da ballo possiedono le chiavi e la titolarità dei muri.

 

Foto Pino Fama