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Al termine della finale del Campionato Italiano di Eccellenza, dopo le premiazioni con lo Stadio Battaglini che si andava svuotando, mentre i tifosi dei Bersaglieri andavano a festeggiare nell'area terzo tempo e in giro per la città ci siamo fermati a parlare Stefano Bettarello, direttore sportivo e icona storica del club, in cima alla tribuna mentre si godeva il momento.

 

Stefano 26 anni dall’ultimo scudetto, il dodicesimo, dal 1963 la Rugby Rovigo non lo vinceva in casa. Emozioni dopo questa partita?

“Le emozioni le ho vissute già qualche tempo fa a partire da quando mi rendevo conto che questa squadra stava giocando bene ed era molto solida, molto decisa e consapevole dei propri mezzi. Probabilmente mi emozionerò quando andrò a salutare mio papà sulla tomba perché con lui avevo sempre un po’ nel cuore il fatto di aver lasciato Rovigo per andare a giocare a Treviso e non aver mai avuto la possibilità di ritornare.

Però il tempo è galantuomo, mi è stata offerta la possibilità e devo ringraziare il presidente Zambelli che me l’ha data, perché altrimenti io sarei stato probabilmente solo una volta tanto spettatore, una volta tanto magari invitato d’onore, una volta tanto invitato a scrivere un articolo di giornale come opinionista. Logicamente avermi affidato il ruolo di direttore sportivo, che poteva sembrare facile da fare perché la squadra era già stata fatta dall’allenatore, poteva far pensare che sarebbe stato solo un anno in cui avrei dovuto prendere visione della situazione e nel quale avrei dovuto trovare nuovamente i miei riferimenti qui dentro.

In realtà è diventato tutto più difficile ma anche tutto molto più stimolante quando è stata presa la decisione di dare una svolta con l’avvento di Joe McDonnell che secondo me ha dato la un qualcosa in più a questa squadra perché ha portato il carisma e la determinazione All Blacks a Rovigo. E’ la prima volta che un allenatore neozelandese vince a Rovigo, avevano vinto francesi, sudafricani. Secondo me è stata fatta la scelta migliore e i risultati parlano da soli”.

 

Hai citato gli All Blacks c’è una sorta di legacy come per gli All Blacks anche in Rovigo?

“Rovigo l’ha sempre avuta, diciamo che si era un po’ affievolita nel corso degli anni soprattutto nel delicato passaggio dal dilettantismo al professionismo dove probabilmente l’onda è arrivata anche un po’ troppo a sorpresa e ha, se vogliamo, preso un po’ alla sprovvista un club che si fondava sui valori.

Ora abbiamo conquistato il primo scudetto dell’era professionistica a Rovigo, di acqua ne è passata sotto i ponti, i valori anche nella società si erano un po’ persi, forse messi un po’ da parte anche inconsapevolmente. Ma ritrovando un allenatore e un direttore sportivo che portano un messaggio di rugby forse d’altri tempi, nel senso che forse noi in Italia lo abbiamo un po’ dimenticato, ma non certo gli All Blacks ne consegue che i risultati possono essere solo che positivi.

Magari non avremmo vinto lo scudetto ma non sarebbe cambiato nulla perché il messaggio che Joe ha portato è chiaro”.

 

Un pensiero tuo particolare, un’emozione che ti ha lasciato quest’anno?

“Quest’anno ho fatto pace con i tifosi del Rovigo perché purtroppo io qui ero un idolo, sono venuti a baciarmi i piedi dopo una partita contro il Petrarca nella quale avevo segnato tutti i punti e li avevo condannati alla Poule retrocessione. Poi sono andato via a Treviso. La cosa è stata vista con molta stizza, forse anche oltre quello che sarebbe stato lecito aspettarsi.

C’è sempre stata questa frattura, con lo scudetto di oggi l’operazione è perfettamente riuscita e la guarigione è completa. Io sono sempre stato di Rovigo, anche quando ero a Treviso mi dicevamo che ero un rovigotto e probabilmente ho portato quel qualcosa di Rovigo anche a Treviso per aiutarli a vincere”.

 

Foto Elena Barbini

 

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