x

x

9.30 - “vi saluto, vado all’Olimpico”, ma “la partita è alle 16, non ci metterai mica delle ore, di domenica, ad attraversare Roma…”, “no, ma io faccio il Volontario!!”.

La FIR può contare su qualche centinaio di appassionati Volontari per l’organizzazione delle partite in casa. La complessità di questi eventi, osservati da milioni di spettatori, richiede il presidio di una gamma di attività solo in parte percepibile dall’esterno, di contorno rispetto alla partita, ma da gestire con una regia unica, articolata secondo tempi e scalette che, per alcuni servizi, arrivano al secondo: assistenza al pubblico, cerimoniale di campo, relazioni con i media, sicurezza, biglietteria ed accrediti, villaggio, ospitalità, ecc.

E così, mentre vado verso lo stadio per Italia-Inghilterra, alla passione sportiva si somma il pensiero sul ruolo: “Oggi l’Italia ce la farà? Saremo capaci di esprimere un gioco efficace? E, che incarico mi daranno? Ne sarò capace?”

Anche i Volontari sono una squadra, numerosissima e con la stessa ‘maglia’ (il mitico kway azzurro con l’insegna FIR, unica ricompensa, ma sufficiente), diversi per età, sesso, territorio, fase di vita (dallo studente al dirigente), tutti orientati dalla stessa passione. Tutti impegnati dalla mattina sino a fine partita,  con l’obiettivo unico di poter godere di una prospettiva del tutto diversa e privilegiata sull’incontro, una prospettiva inconsueta che coinvolge i sensi in un crescendo di suoni, colori, odori, sapori, contatti: dallo stadio vuoto sino ai 60/70.000 spettatori di diverse bandiere, dalla quiete assoluta ed irreale dell’apertura dell’impianto al frastuono cacofonico di speaker, sostenitori e musica sugli spalti, dai chioschi del villaggio ancora chiusi sino agli ettolitri di birra (che arrivano nell’antistadio in vere e proprie autocisterne) e ai quintali di salsicce che verranno consumati, dall’orror vacui dello spazio vuoto intorno allo stadio del mattino, sino all’arrivo di tanti sorrisi e di tante aspettative.

All’interno dello stadio, gli asciugamani per i raccattapalle ancora conservano la piega del nuovo. Le bandiere sono ancora perfettamente riposte nei loro sacchi, ma presto conosceranno il vento, che ne esibisce ed esalta la bellezza. I ragazzi delle Accademie arrivano intimiditi: sfilando con le loro maglie, scopriranno fra poco quanto sono alte le tribune dello stadio. Gli spogliatoi, del tutto anonimi e puliti, fra poco verranno ‘scaldati’ dalle borse e dalle insegne che ogni squadra porta con sé per sentirsi sempre ‘in casa’. Anche alcune sedute dello stadio sono da personalizzare e da riservare alle squadre, ai medici, ai giornalisti, ecc. Gli operatori delle tv tarano gli strumenti e provano le inquadrature; i commentatori sono a caccia, sino all’ultimo momento, di tracce e spunti che potranno arricchire la loro cronaca. La banda libera gli strumenti dalle custodie, perché è di aria che hanno bisogno per far sentire gli inni. Persino l’erba viene tirata a lucido, riceve l’ultimo ‘trucco’ con i loghi degli sponsor.

Poi, arrivano anche le squadre, in tenuta da riscaldamento, così come l’arbitro e gli assistenti, che preparano il proprio corpo ad una tenuta in campo non di tanto inferiore a quella degli atleti. Tutti oggetti, luoghi, persone e funzioni che lo spettatore televisivo, ma anche quello presente, percepisce nella loro brillante superficie e che, invece, chi è ‘dietro le quinte’ contribuisce a costruire, predisporre, far vibrare in modo spontaneo ma senza dissonanze, in questo particolare, temporaneo e meraviglioso luogo di incontro.

Può capitare, poi, come è capitato al sottoscritto, di avere un incarico (gestione dei raccattapalle, o ‘ball boys’, per gli avversari inglesi) tale da consentire addirittura di rimanere a bordo campo per tutta la partita. Arrivano, finalmente, l’ingresso delle squadre, la lettura delle formazioni, gli Inni Nazionali. Poi si lascia la scena, che si spera ‘perfetta’, agli attori assoluti ed esclusivi: i giocatori delle Nazionali, l’arbitro, il pubblico. Ma tant’è, all’ex bambino che si innamorò del Rugby in bianco e nero del 5 Nazioni e oggi giocatore old, questa ubriacatura a colori dei sensi lascia una meravigliosa spossatezza da orgoglio di prossimità a chi sembrava così lontano.

Perché lo faccio? Provo a restituire a questo sport, alla comunità che mi ha accolto, una parte delle competenze e delle emozioni che mi ha dato. A me resta quel kway, che potrà essere indossato, con orgoglio d’appartenenza, di nuovo qui, ma anche sui campi ‘old’.

 

Luigi Mazzotta