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Siamo un popolo di santi, navigatori, analisti raffinati e, all’occorrenza, dietrologi ed esperti di tutto. Amiamo emettere verdetti, delle prove che ne sostanzino, giustificandoli, contenuti e accenti, poco ci cale. L’importante è che a nessuno salti in mente di domandare credenziali o pezze d’appoggio. Patenti o titoli professionali. C’è la libertà di parola? E noi la usiamo. Tutto qui.

Prendete il rugby italiano e la recente lunga teoria di responsabili tecnici, tutti stranieri, chiamati al suo capezzale con il mandato dichiarato di generare quella sorta di “Alzati e cammina” in salsa ovale che attendiamo da anni. Dai tempo in cui, tanto per capirsi, alcuni nostri “grandi vecchi” facevano 0-0 in casa col Portogallo e con il Marocco a Casablanca le prendevano quasi regolarmente. Per non parlare della Romania…

A datare dalla dipartita (dal Bel paese) di Brad Johnstone nel 2002, uno che comunque aveva “raddrizzato mica male la schiena a Fiji” nel Mondiale del ’99, i signori Kirwan, Berbizier, Mallett e Brunel hanno avuto, praticamente in esclusiva, “le chiavi del camion”, la cabina di comando della nostra massima espressione sportiva in ambito rugbistico, la Nazionale. Quella che dal 2000 disputa il più importante e prestigioso dei tornei ovali del vecchio e nuovo continente e che regolarmente, in novembre, sfida le super potenze del pianeta. Le stesse che fino a ieri l’altro neanche immaginavano che da noi si giocasse con una palla ovale.

Qualcuno mi chiede di stilare una sorta di classifica di merito dei sopra citati (ottimi) allenatori, inserendo nell’elenco anche l’irlandese O’Shea. “Quello che tanto ci aveva favorevolmente impressionato al suo arrivo, prima di battere il Sud Africa e perdere con Tonga. Quello che ha rimediato quasi cento punti nelle due prime uscite del Sei Nazioni."

Accetto la sfida e l’invito non perché mi ritenga all'altezza di promuovere o bocciare chicchessia, ma perché ho deciso di fare un eccezione.

Confesso, e così ogni tentativo o tentazione di procedere secondo logica e sulla base di dati oggettivi e inoppugnabili che nutro una smisurata venerazione (sì lo so, è tautologico, la venerazione è smisurata in quanto tale. Se non lo fosse non si tratterebbe di venerazione) per il lavoro di ricerca e di elaborazione di Jaques Brunel. Al quale il mondo del rugby (moderno!) è debitore della teoria della “distribuzione efficace dei giocatori nello spazio dopo il lancio del gioco” e delle sue puntuali modalità applicative. C’è tutto in un Cd di fine anni ’90, compreso il “libero” da rimessa laterale. Consultare per credere. Ora, che uno con il curriculum di Brunel in patria (roba grossa, mica coriandoli), una volta arrivato in Italia, si sia trasformato (colpa del clima?) un incapace e un incompetente, come molti nel nostro giro hanno più volte sostenuto, è cosa che non dovrebbe appartenere al mondo delle cose sensate. E invece…

Anche Pierre Berbizier, a mio giudizio, ha fatto un ottimo lavoro. Ma forse ha capito quasi subito che il materiale umano con cui avrebbe dovuto operare il salto di qualità tanto desiderato e atteso era… Lo ricordo nel corso di una delle prime sedute di allenamento, correggere, discretamente stupito, forse scandalizzato, gli azzurri che, eseguendo l’esercizio di uno contro uno nello spazio ristretto di un rettangolo, dimostravano di non avere alcun chiaro concetto di “linea di corsa interna”, e cadevano, arrivando frontalmente nei pressi del portatore di palla, vittime di finte e di cambi si passo che anche in pensionato.

Nick Mallett ebbi modo di incontrarlo a una di quelle cene che (allora) la Fir organizzava in giro per l’Italia e a cui invitava la stampa della zona. Eravamo dall’Amelia, a Mestre. E parlando del più e del meno, Nick ci raccontò di come aveva risolto (a Parigi) il problema della scarsa dedizione di Diego Dominguez. “L’ho messo in panchina per un mese di seguito” raccontò “e al suo posto ho fatto giocare un altro. Per mettergli pressione, per fargli capire chi comanda, per obbligarlo a dare il massimo” spiegò. “Poi Diego mi fece vincere la finale” fu la conclusione. Un fine psicologo, mi sussurrò ammirato il collega che avevo alla mia destra. O un cazzaro, rilanciai convinto.

Di Jonh Kirwan ricordo di aver studiato il planning di una trasferta della nostra Nazionale under 17 in Argentina. “Ore 19.15 – 19.25 un litro di minerale non gasata a testa”, lessi fra le varie indicazioni alla voce: “attività durante il primo scalo”. Poi seguii, intenzionato a imparare, alcune delle sue sedute di allenamento. Abituato a quelle di Georges Coste mi colpì il basso livello complessivo di intensità. Inoltre, ma si tratta di cose assolutamente personali, non ho mai digerito la visita guidata degli Azzurri al Colosseo (la lettera di richiesta ufficiale al Comune di Roma fu scritta e inoltrata da Marco Bollesan), per “trasmettere ai giocatori lo spirito combattivo dei gladiatori”. Né la campagna “voglio una Nazionale che giochi come gli italiani guidano l’auto” lanciata in piena emergenza stragi del sabato sera.

Conor O’Shea sostiene che l’Italia che gioca a rugby è un movimento ricco di talenti. I miei amici Carlo Orlandi e Gianluca Guidi la pensano allo stesso modo. Se hanno ragione loro, ovvero: se questa messe di talenti esiste davvero, allora ha senso il piano di gioco che prevede di risalire il campo calciando sempre dentro e  mai fuori. Ha senso perché, così stando le cose, verrà il giorno in cui a tirare pedate avremo uno che lo sa fare, e a portare alto il fronte della pressione saremo diventati dei maestri. Questo nei primi 70 metri. Gli ultimi 30 ce li giocheremo alternando forme di gioco con le mani. Sarà un bel vedere, non ho dubbi. E se farò in tempo io, a godermi un tale spettacolo, ci penseranno i miei due figli, poco più che ventenni. Loro, di tempo ne hanno a sufficienza. Spero.