x

x

Tra l’infanzia e l’adolescenza ho praticato con curiosità tutti gli sport più diffusi. Non ricordo tutti i nomi o le facce degli allenatori che ho incontrato, ma ricordo benissimo ancora oggi le loro parole: quelle pronunciate durante allenamenti e gli intervalli di partita oppure quelle urlate da bordocampo.

Le ricordo perché tutto sommato, indipendentemente dal fatto che mi abbiano incoraggiato, inorgoglito o ferito, erano sostanzialmente sempre le stesse: “grinta”, “cattiveria”, “determinazione”, “carattere”… Tutte declinazioni diverse di un unico concetto di fondo, quelle secondo cui la prestazione ottimale si raggiunge con un eccezionale sforzo di volontà. 

Metticela tutta e ce la farai.

Decidi di vincere e la vittoria cadrà inevitabilmente tra le tue braccia.

Niente di strano: a ben pensarci, è il concetto che risalta ancora oggi nella stragrande maggioranza delle interviste ad allenatori professionisti, quantomeno nel nostro Paese. Quante volte, ogni giorno, viene chiesto agli atleti di “tirar fuori gli attributi”, “dare il cuore” o di “metterci il carattere”, cioè, semplicemente, di impegnarsi a fondo?

Negli ultimi decenni, però, l’importanza della sola forza di volontà per raggiungere una prestazione ottimale è stata ampiamente sminuita dagli studi di psicologia positiva, particolarmente sviluppati negli USA anche ai fini sportivi.

E’ forse normale, dunque, che sia il nuovo Coach dell’Italrugby, l’irlandese Conor O’Shea, a offrire al pubblico italiano una nuova prospettiva nella gestione delle prestazioni sportive. Le parole che O’Shea ha utilizzato già dalle prime interviste di presentazione hanno subito segnato un cambiamento drastico rispetto al passato, e non solo con riferimento al mondo del rugby. Mentre tutti i giornalisti gli chiedevano quando la nostra Nazionale inizierà a vincere e a mantenere una certa continuità di prestazioni, O’Shea è riuscito a introdurre ben chiaro il concetto di responsabilità. Lo ha ripetuto più volte e continua a farlo anche in queste settimane di attesa per il suo primo 6 Nazioni: il coach è responsabile dei risultati, i giocatori sono responsabili della loro prestazione.

E’ una rivoluzione copernicana, che può sembrare banale ai meno attenti perché si gioca in modo sottile sul confine tra quello che può essere detto pubblicamente e quello che invece deve restare assolutamente racchiuso tra le pareti sottili degli “spogliatoi”.

Sostenere che il Coach da solo risponde dei risultati ha tutta una serie di conseguenze immediate. Tra le principali, ha l’effetto di scaricare una parte di ansia da prestazione dalle spalle degli atleti, garantendo allo stesso tempo un cuscinetto di protezione verso i media e l’opinione pubblica.

E’ la premessa perché gli atleti possano concentrarsi su ciò che viene loro richiesto, la “prestazione ottimale”, cioè la corretta applicazione di tutti i gesti (tecnici, tattici, decisionali) con il giusto tempismo. E’ ormai infatti documentato che solo il completo coinvolgimento di una persona in un’attività garantisce il piacere, la naturalezza e il senso di controllo capaci di liberare le migliori potenzialità.

Si tratta della “teoria del flusso”, sviluppata dallo psicologo americano Mihaly Csikszentmihaly  a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, di cui avremo modo di parlare più volte in questa rubrica.

O’Shea intanto continua a sottolineare le potenzialità della sua squadra e il duro lavoro che è necessario intraprendere per vederle realizzate. Ha impostato il lavoro sul lungo periodo per diminuire le pressioni sugli atleti e per allentare le aspettative di media e tifosi. In questo modo ha posto le condizioni perché la squadra possa, aumentando la propria naturalezza, raggiungere risultati molto prima di quanto i giocatori stessi si aspettino.

In questo senso, la vittoria storica con il Sudafrica di alcune settimane appare come una conferma, ma anche come un bastone tra le ruote. E’ arrivata troppo presto? Un risultato troppo positivo, ottenuto prima di aver portato un cambio di mentalità permanente, prima di aver fatto toccare con mano il duro lavoro che c’è da portare a termine?

I dubbi sono legittimi, ma la certezza è un’altra: l’Head Coach dell’Italrugby ci sta dimostrando di conoscere la strada da percorrere e, soprattutto, di saper convincere gli atleti a percorrerla. Non ci resta che seguirne ancora da più vicino tutti i passi.