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Si parla dello stress dei giocatori in campo, ma secondo me lo stress cui è sottoposto l'arbitro è pari o superiore a quello dei giocatori. Che ne pensi?

Dipende da quale punto di vista stiamo adottando. L'arbitro, pur trovandosi fianco a fianco con i giocatori, fa una partita tutta sua. I giocatori cercano di vincere giocando al limite, mentre la vittoria  dell'arbitro segue dei canoni che sono sconosciuti ai più. L'arbitro sarà soddisfatto della propria performance solo in base a quelle specifiche metriche di giudizio.

 

Certo, però nel frattempo i giocatori, gli addetti ai lavori e il pubblico cercano di interferire. Questo può essere un fattore di stress per l'arbitro.

Eccome. E' proprio la capacità di tollerare l'external noise, cioè il rumore di fondo, l'attacco che l'arbitro subisce e che si alza alzandosi il livello, questo rappresenta un fattore determinante per distinguere l'arbitro di buon livello da quello di ottimo livello o di caratura internazionale.

 

C'è una parte della formazione degli arbitri che va a interessare questo specifico aspetto della prestazione, cioé quella mentale?

Questa è una domanda molto interessante. Avendo avuto l'opportunità di confrontarmi con realtà internazionali, grazie alla FIR o a qualche collega, mi sono chiesto: c'è un atteggiamento volto a educare gli arbitri alla gestione dello stress o verso un percorso di allenamento mentale? La risposta è: insomma. Non quando io mi sono formato all'Accademia di Tirrenia. La cosa interessante è che nemmeno all'estero c'è questa sensibilità. Solamente da due, tre stagioni in Inghilterra hanno deciso di inserire una figura di mental coach anche agli arbitri. In Francia ci stanno arrivando, ma sono latini come noi e avendo una componente di autostima molto elevata cercano di compensare con altri aspetti. In Italia ho avuto il piacere di iniziare a collaborare dallo scorso settembre con Alessandro Bargnani del CISPAT di Padova, che è un istituto di psicoterapia e gestisce alcuni programmi di affiancamento per alcune squadre nazionali, come quella di rugby a sette. La parte mentale è una dimensione da tenere in forte considerazione anche per gli arbitri, che come detto prima non vincono nel modo canonico.

 

L'arbitro vince quando non si fa notare?

E' una chiave di lettura. A volte il non venir notato può però essere dettato dall'ignoranza, non conoscendone le metriche non lo si ritiene un fattore determinante, oppure perché magari gli viene riconosciuta una totale incapacità...

 

Qual è, se c'è, una fase critica in un match?

A tutti i livelli veniamo educati al fatto che le situazioni sono, genericamente, le stesse. I primi dieci/venti minuti, nei quali l'arbitro deve far percepire ai trenta energumeni, quelli da tenere fuori dal centro città citando Oscar Wilde, e anche agli addetti ai lavori (non al pubblico, è buona regola ignorare il pubblico, perché si arbitra per le squadre, non per il pubblico, questo è un dogma) quali sono i canoni del gioco, cercando di capire come le squadre stanno impostando le varie fasi di gioco. Poi la ripresa del gioco, in cui si deve capire se è necessario salire in cattedra e riprendere in mano saldamente le redini. In questa fase è importante non tralasciare i piccoli problemi perché hanno la tendenza, in campo e nella vita, a ingrandirsi. Il terzo e ultimo momento, naturalmente, è il finale, a seconda che il risultato sia ancora aperto oppure meno. Se siamo con un pareggio e le squadre mostrano di voler giocare, le direttive, anche in campo internazionale, sono quelle di fischiare solo il chiaro e l'ovvio, in modo da permettere ai giocatori di essere completamente responsabili delle loro azioni.

 

Un arbitro si prepara in modo diverso per un match importante?

E' inutile nascondersi dietro frasi di rito e ripetere che ogni partita ha la stessa importanza. La realtà dei fatti, a tutti i livelli, è che ci si trova a modularsi a seconda dell'anzianità di arbitraggio, della conoscenza del gioco espresso dalle squadre, che magari si sono già arbitrate più volte... E' molto importante, d'altra parte, non sottovalutare le partite apparentemente meno importanti, non prenderle come un momento di svago o come una punizione. L'esperienza è molto importante per poter gestire la tensione e il momento di attivazione nel migliore dei modi. Non solo relativamente al match da arbitrare, ma anche agli stress che lo precedono: ad esempio la trasferta, il viaggio per raggiungere lo stadio, elementi che costituiscono fonti di inquinamento psicologico. Anche gli arbitri sono esseri umani.

 

Verissimo, molte ricerche “giustificano” il mal di trasferta degli atleti con questi aspetti. Vorresti aggiungere qualcosa?

Quello che mi sentirei di aggiungere è una speranza e un suggerimento. Questa attenzione agli aspetti mentali dovremmo sperimentarla nello sport ed esportarla nella vita. Lo stimolo in primis per approfondire questi temi dovrebbe arrivare da noi. Se penso alla mia esperienza, dico che in passato non sono riuscito a gestire alcune situazioni in campo nel modo migliore a causa di una difficoltà oggettiva a gestire me stesso. Quindi il mio suggerimento è: dovremmo essere tutti umili (chi arbitra, chi ci guarda, chi allena, chi gioca) e assumere un punto di vista più umanistico, dove si parte dal prendere coscienza di chi siamo, come persone, chi dovremmo essere e quali strumenti abbiamo a disposizione per confrontarci, migliorarci, metterci in discussione. Craig Joubert, in un'intervista dopo una finale mondiale Francia – All Blacks, disse: alla fine noi arbitri, come tutte le altre persone, dovremmo avere un unico obiettivo principale, cioé pensare tutto quello che facciamo come un percorso per raggiungere, parole testuali, “the best version of ourselves” (la versione migliore di noi stessi).