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Sono due le risultanze più evidenti e meno contestabili del novembre ovale che sta per finire. La prima più a largo spettro riguarda la distanza qualitativa fra il Nord e il Sud del pianeta ovale che si è drasticamente ridotta portando le due realtà (quasi) sullo stesso piano. Merito delle Home Union, meglio chiarirlo subito. Con Inghilterra e Irlanda (in un anno battuti All Blacks, Inghilterra, Sud Africa e Argentina!) ai posti 2 e 3 della classifica mondiale e la Scozia capace di maltrattare l’Australia, di perdere di 5 con i neozelandesi e di regolare Samoa. Il Galles (che sabato al Millenium incontrerà il Sud Africa), numeri alla mano, pare l’anello debole delle Fab four isolane. Il prossimo Sei Nazioni ci dirà se di crisi è giusto e sensato parlare. Resta il fatto che, dietro Sua Maestà la Nuova Zelanda, il parterre dei pretendenti al trono abita e ha radici profonde nel Vecchio continente. E la cosa non può che farci piacere. La seconda risultanza, che ci riguarda più da vicino, è la constatazione che, a oggi, la distanza (il divario) fra il rugby espresso dalla nostra Nazionale e quello che hanno in repertorio le squadre del Tier 1 è ampio. Difficile dire se, prendendo a paragone, il novembre 2016 esso si sia fatto ancora più pronunciato o meno. Impossibile, in verità, e anche discretamente inutile. Ma le immagini (a disposizione di tutti) dei ritmi, delle intensità e dei volumi di gioco efficace delle nazioni che ci precedono nel Ranking sono di una solarità accecante. Perché negarlo? Secondo alcuni osservatori la misura della nostra inadeguatezza è emersa più chiaramente nel match di Padova. Anche se l’esito del confronto di Firenze dovrebbe far (amaramente) riflettere sulla effettiva consistenza del gioco espresso da Parisse e compagni, perché perdere con l’Argentina si può, non è né uno scandalo né un delitto. Ma perdere dominando per 80’ le fasi statiche di conquista, è allarmante controsenso logico, anche nel rugby del terzo millennio.

Conor O’Shea sostiene che il percorso intrapreso è quello giusto e che i primi riscontri emersi sono apprezzabili. “Abbiamo conquistato profondità nella rosa e competenze collettive che prima non possedevamo” ha dichiarato convinto. “L’Italia del rugby sta facendo cose che per vent’anni non ha voluto o non ha potuto fare” è la sua convinta difesa della squadra che poco di veramente apprezzabile ha fatto vedere a Padova e a Firenze e che in 240’ di rugby giocato ha realizzato una sola meta. “Da oggi penso all’Inghilterra, è quello il nostro obiettivo” ha assicurato il tecnico irlandese nella sala stampa dell’Euganeo. “Insieme agli altri quattro appuntamenti del Sei Nazioni 2018”.

Alla voce sorprese di novembre (Francia in crisi a parte, che si accinge a segare nientepopodimenoché Guy Noves, il padre nobile del rugby d’Oltralpe) qualcuno ha inserito il Giappone, capace di impattare (giocando molto e bene) a Parigi con i Coqs, la Georgia, che a Cardiff ha perso di 7 con i Dragoni, e magari anche la Romania che ha avuto la meglio su Samoa. Squadre che l’Italia non incrocia più da tempo ma che, al momento, potrebbero costituire un interessante e probante banco di prova per le tappe di avvicinamento azzurre alla mitica fine del tunnel. È vero, si tratta di fantarugby, ma andare a sfidare i georgiani a Tiblisi o replicare un test match con i nipponici (isolani del Sud Pacifico compresi) prima di febbraio o in altra data a casa loro… Impossibile, vero. Era solo un’ipotesi.

 

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