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Personalmente rimango uno che non si accontenta della competitività ritrovata nell’ultima sfida con la Scozia. Anzi. Penso che, nell’attuale percorso di rivoluzione dei processi di ricerca, “produzione” e sviluppo del talento che esistevano prima dell’avvento dei Centri di Formazione Permanenti (aka Accademie) e del lavoro “ad imbuto” operato sull’Under 16 e 14, vincere o perdere quel match avrebbe cambiato poco. Certo, una striscia di 17 sconfitte consecutive rimane una dolorosissima ferita aperta che potremo provare a suturare solo l’anno prossimo, ma ben vengano 17, 20, 25 sconfitte consecutive se queste porteranno ad un futuro stabile ed equilibrato, dominato da un sistema in grado di assicurare ogni stagione al movimento quella competenza a 360° che ci è sempre mancata a questi livelli.

Sono molto più preoccupato dai giri a vuoto, dagli incomprensibili (per gli standard richiesti) errori individuali visti lungo il corso del Torneo e per le occasioni gettate al vento in momenti chiave di quasi tutti i nostri incontri. Quest’ultima, ahimè, è una costante che pare non trovare una soluzione al momento, complice anche la poca esperienza di un gruppo profondamente rinnovato.

 

Aspetti positivi

Ricambio generazionale: pare oramai evidente che il sistema stia formando con costanza prodotti di qualità e il percorso nelle Nazionali giovanili e Emergenti stia introducendo sempre al rugby internazionale un numero sempre maggiore di atleti con basi solide e un futuro tutto da giocarsi.

In un’analisi completa e puntuale di un momento fondamentale della nostra stagione internazionale quindi non può essere trascurato il percorso compiuto dalla Nazionale Under 20. Con colpevole ritardo (a mio avviso) la Federazione ha deciso di cambiare guida tecnica, affidando le redini a Fabio Roselli e i risultati non sono tardati ad arrivare. Meglio tardi che mai, penserete. No, l’errore c’è ed è grave e si misura in almeno due generazioni di giocatori “compromessi” a livello internazionale.

Ora, non conosco bene il tecnico ma, come abbiamo fatto per la Nazionale Maggiore, guardo ai numeri. Se sono impietosi in caso di sconfitte, non possono che essere rivelatori in caso di successi (altrimenti si entra in un giochino che è tutto politico e poco oggettivo…). Ebbene, “trascurando” il successo per lo storico quarto posto, è evidente che il focus sia passato da un atteggiamento difensivo ad un espansione nel gioco e nelle sue dinamiche. Il risultato è stata una brusca inversione di tendenza evidenziata dal numero di mete fatte (17, quasi il doppio del record storico degli Azzurrini, fermo alle 9) che ha portato a una competitività senza precedenti. Certo, il giro a vuoto con la Francia ha pesato come un macigno sul bilancio finale (il 78 a 12 ha contributo con ben 12 mete sulle 27 subite in tutto il Torneo da Lamaro e compagni), ma le prestazioni di Udine, Dublino, Calwayn Bay e Bari non possono passare inosservate.

Pubblico: è passato sotto silenzio ma, nel computo degli aspetti positivi, non si può non citare il pubblico. Gli oltre 60mila spettatori accorsi sia in occasione della sfida all’Inghilterra e alla Scozia, convogliati all’Olimpico in un freddo pomeriggio di pioggia, per sostenere gli Azzurri reduci da quattro sconfitte in altrettante gare e “nel pieno” della striscia di sedici ko consecutivi nel Sei Nazioni, sono un dato che vale oro e che deve stare alla base delle valutazioni di merito per il futuro.

 

Aspetti negativi:

Ho già citato quelli più gravi nell’attacco di questo pezzo. Passiamo a quelli che girano in rete e sui giornali.

Premessa: le critiche ci sono e sempre ci saranno (è molto più facile criticare che costruire, molta gente di questo ci vive… e non mi riferisco solo all’aspetto economico). Per molti aspetti, quelle costruttive hanno anche un valore estremamente positivo. Ma tra la tante, spesso inutili, superficiali e interessate, ce ne sono due che mi hanno colpito e sulle quali credo sia interessante una riflessione un filo più profonda:

1- la mischia italiana non domina più come una volta le fonti di gioco: a parte il fatto che credo di aver visto in questo Sei Nazioni la migliore organizzazione in rimessa laterale – soprattutto sotto pressione - degli ultimi due “cicli” (Brunel e O’Shea), ritengo che la mancanza di dominio in mischia ordinata sia semplicemente da imputare al profondo ricambio generazionale operato da O’Shea in prima linea e al fatto che l’Italia di oggi gioca in maniera profondamente differente da quanto abbia mai fatto prima. Abbiamo schierato due piloni destri che si sono presentati a questa edizione del Torneo con dieci (si, dieci) cap in due (8 Ferrari e 2 Pasquali), due sinistri con poco più che 20 presenze (20 Lovotti, 2 Quaglio) e i sei caps di Luca Bigi alle spalle di Ghiraldini, con i suoi 89 caps, unico “senatore” di reparto (e anche i “richiamati” in corso di torneo hanno portato poco in termini di esperienza internazionale Chistolini 20, Zani 6). Abbiamo affrontato l’Inghilterra (titolari: Vunipola 44-Hartley 89-Cole 77), l’Irlanda (McGrath 42-Best 106-Furlong 19), la Francia (Poirot 14-Guirado 56-Slimani 41), utilizzando gli stessi uomini anche contro il Galles semi-sperimentale (Smith 16-Dee 2-Francis 26) e la Scozia (Reid 27-Brown 29-Nel 19) che, al contrario, avevano richiamato forze fresche per il finale di Torneo. La giovane mischia Azzurra è chiaramente un cantiere aperto.

2- i prodotti extra-Accademia. Polledri e Negri, due giocatori che hanno strappato applausi, sono nel giro delle nazionali giovanili dal 2014 il primo e dalla stagione seguente il secondo (ovvero da cinque e quattro anni) e fanno parte di un’opera necessaria per alzare al massimo il livello di competitività degli Azzurri. Chi si stupisce o critica la scelta di utilizzo, o peggio sceglie questa banale scusa per sottostimare il valore del sistema CdFP+Accademie, è semplicemente fuori giri (o, come spesso accade nel nostro Peaese, non sa di cosa parla e/o scrive): il professionismo ha portato questo tipo di politiche all’eccesso, Rugbymeet ne ha già trattato (ma fatemi ribadire che i vari Grigg, Huw Jones, Maitland, Visser, Nel o Strauss, giusto per citare qualche esempio, le Accademie scozzesi non le hanno viste nemmeno di striscio).

 

Quindi la scelta è di tipo etico-politico: vogliamo utilizzare solo atleti nati e cresciuti in Italia? Bene, allora sediamoci ed aspettiamo (senza scandalizzarci per le sconfitte) ancora per qualche tempo perché il processo di crescita competitiva sarà, per ovvie ragioni, più lungo e non è detto che arriveremo dove vogliamo (perché la scelta di non seguire le “politiche” adottate dalle altre Union farà ovviamente ampliare il gap tra noi ed il resto del mondo professionistico). Ricordatevi, ci abbiamo messo una decina d’anni per capire che bisognava introdurre un sistema di formazione centralizzato….

Per quanto riguarda poi il percorso federale costruito per l’identificazione e lo sviluppo del talento, ritengo che quello attuale sia la soluzione ideale per il nostro rugby. Una struttura che deve essere sostenuta e completata dal lavoro dei club e da iniziative ad-hoc in grado di limitare la dispersione di materiale umano, specialmente nell’anno del passaggio dei ragazzi nell’Accademia Nazionale (che dal prossimo anno saranno due). Ma il sistema c’è e va mantenuto e sostenuto.

 

I problemi, quelli veri…

Non è la prima volta che mi espongo in maniera netta contro la riduzione dei CdFP Under 18, scelta disgraziata che tra qualche stagione ci presenterà il conto. Il punto è che il sistema va migliorato, certo, a cominciare dalle persone che ne fanno parte. Secondo voi tutti i tecnici regionali che compiono la prima “scrematura” degli Under 16 sono profili di qualità? Hanno tutti le qualità per potersi permettere dei giudizi di merito su presente e futuro dei ragazzi che visionano? Secondo voi tutti gli allenatori delle strutture Federali Under 18 sono tecnici preparati al meglio per “consegnare” ai ragazzi quei messaggi fondamentali per lo sviluppo delle loro competenze, in quella particolare, delicatissima, fase del loro percorso di crescita?

La verità è che i problemi esistono in FIR come esistono nei club. Se nei club, spesso e volentieri, non si può rinunciare alla dedizione di soggetti poco qualificati ma che costano poco (spesso gratis) e assicurano presenza e lealtà, ecco che la Federazione dovrebbe smetterla una volta per tutte di utilizzare il “sistema” per compensare “favori elettorali” o “spinte politiche”. Quella era ed è la vera disgrazia del modello “Accademie”.

 

Ma che il problema sia quello delle “teste” lo si riflette anche nelle Zebre, organizzazione federale che, in quanto unica realtà “professionistica” del Paese, dovrebbe reclutare i migliori profili espressi dal movimento e non amici o amici degli amici.

 

Il punto che più mi preoccupa è che sempre più spesso mi imbatto in discorsi di chi governa oggi, e di chi vorrebbe governare in futuro, che puntano tanto in materia di gestione quanto in materia di campo, ad amici. La parola d’ordine dovrebbe essere sempre e comunque “migliori”.

Ultima nota tristemente negativa: nel post-partita di Italia-Scozia la frase “meritavamo la vittoria” è stata detta da molti giocatori (o, quanto meno, è stata riporta così dalle testate giornalistiche che hanno seguito il match). Ecco. Per essere estremamente chiari, la Scozia ha meritato la vittoria e, infatti, ha vinto. Il successo, nel rugby, lo si conquista SEMPRE con merito. Perché vincere in questo sport non lo si ottiene MAI con una giocata del singolo, con un colpo di fortuna, con l’evento eccezionale. Ci sono 80 minuti di duro e continuo confronto, di lotta fisica, di sfida mentale. La Scozia, ahinoi, ha vinto con merito la partita di Roma. E noi, con merito, ci siamo conquistati l’ennesimo “0 vittorie” nel Sei Nazioni. Credere ad una versione dei fatti anche solo vagamente differente da questa significherebbe rimanere ancorati al nostro passato. E non ce lo possiamo permettere.

 

      Di  Enrico Borra

 

 

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Foto Alfio Guarise